Per Dido Fontana la fotografia è soprattutto un mezzo per esprimere quello che i suoi soggetti vogliono comunicare e nel suo metodo di osservazione le definizioni sono limitanti. Arrivato a far parte della collezione del Minneapolis Institute of Art con uno scatto realizzato nella casa di famiglia, Fontana è un artista spontaneo che si lascia guidare dal flusso creativo e dalla relazione con i soggetti. Le ambientazioni barocche, cariche ed evocative hanno un ruolo fondamentale nelle sue mostre «veri e propri frullatori rock», come li definisce lui.
Nella tua biografia scrivi che la fotografia è radicata nella storia della tua famiglia: com’è nato esattamente il tuo interesse e poi l’intenzione di trasformarlo in lavoro?
«Giocando con le macchine fotografiche di mio padre, rompendole, facendo prove. Come quasi tutti i bambini usando gli attrezzi disponibili in casa che diventano giochi. Nel mio caso erano macchine fotografiche, camera oscura, matite e pennelli, fumetti erotici, arte antica, arte sacra ed immagini di tutti i tipi. È diventato un lavoro naturalmente, prima ero proprietario di palestre e col tempo i due lavori, allenatore e fotografo, si sono adattati seguendo il mio desiderio. Pesi ed immagini sono da sempre presenti nella mia vita. Sposto cose pesanti e faccio foto per lavoro da una dozzina d’anni».
Ti muovi in due mondi, arte e moda e, in entrambi, l’ironia funge da collante nelle tue opere: una strategia per sopravvivere o semplicemente qualcosa che hai cercato per tenere insieme queste due sfaccettature?
«L’ironia per me è necessaria alla vita, per mantenere le antenne pronte sulle cose importanti e usarla in maniera molto seria e profonda sul lavoro. A volte ha senso altre no, dipende dal lavoro, dal messaggio, dalla storia, dal cliente. L’arte la uso, mi piace. La moda anche. Riesco a fare ciò che voglio perché non posso fare altrimenti».
Perché hai scelto il nudo per esprimerti?
«Non ho scelto il nudo. In verità trovo estremamente noiosa la cosiddetta fotografia di nudo. Nei miei ritratti se capita avviene in maniera naturale. Faccio agli altri quello che farei a me stesso. Il rapporto che instauro con la natura di chi sta al di là della mia macchina fotografica è rispettoso e personale, restituisce quello che in quel momento la persona lascia esprimere e raccontare. Sono dialoghi privati dei quali, assieme o inconsapevolmente, si decide che parte mettere sotto gli occhi. Se c’è del nudo nelle mie fotografie (e nudo femminile) appartiene a donne non innocenti, che non hanno interesse a trarre vantaggio dalla nudità ma che la vivono con naturalezza e sicurezza, un seno nudo può essere un’arma, una sfida o può essere solo un seno nudo (di solito è così). Mi piacciono le femmine che tengono le distanze, non quelle che invitano. In questa modalità rientra anche il mio lavoro sul femminile; il fatto che io fotografi donne, donne senza vestiti o elementi femminili addosso a me o ad altri uomini, non può essere strumentalizzabile: un corpo nudo può essere inutile oppure può essere libertà, un abito può aiutare a entrare in una dimensione-altra ma a te vicina, senza per forza trasformarti in ciò che in quel momento indossi. Penso alle rockstar, ai bambini, a chiunque. Da sempre. Quindi ‘fotografia di nudo’ per me non significa nulla ed è limitante, soprattutto se correlato alla femmina. Trovo più interessante il ritratto classico, il porno o altre categorie più oneste. Di fronte a me le donne sono libere di esprimere, chiedere e comunicare qualsiasi cosa vogliano. Importante è la sperimentazione della nostra immagine, importante è percepire le ambiguità necessarie alla conoscenza e alla consapevolezza dei meccanismi che influenzano le nostre vite, e l’arte – così come la fotografia – è uno strumento eccellente in virtù della inviolabile libertà che si prende».
Nel 2015 il Minneapolis Institute of Art ha acquisito un tuo scatto che aveva poco prima fatto parte della mostra The Art of Murder. Come mai hai scelto proprio quell’immagine per rappresentare la fascinazione degli artisti nei confronti del tema dell’omicidio?
«Una piccola scultura in legno del ‘700 del Cristo senza croce su campo azzurro, una parete della vecchia casa di famiglia e quell’oggetto che stava appeso in sala assieme ad altre icone antiche. Scelta dal comitato di curatori del museo perché ritenuta rappresentativa, è stata utile al messaggio che la mostra The Art of Murder ha veicolato, e simbolica. Si tratta di una fotografia di una decina d’anni fatta alla fine di qualche rullino. Bello saperla in una grossa collezione assieme ai mostri».
Nei tuoi scatti c’è la vita, con tutti i suoi eccessi e le mille sfaccettature. Nelle tue immagini, nulla è lasciato al caso: cosa succede sui tuoi set e quanto tempo spendi a pianificare e organizzare il tutto?
«Mi piacciono i ritratti ambientati, perché gli oggetti e gli ambienti possiedono doti narrative. La fotografia è solo un mezzo e non mi interessa in quanto processo tecnico, il mio è un metodo d’osservazione. Niente Fotografia quindi, ma stile d’approccio all’immagine per me. Più che programmare una foto di solito ho in testa un’idea (presa sicuramente da qualche parte anche quando penso sia mia originale) che si basa più sul soggetto e sull’atteggiamento piuttosto che sull’immagine finale. Lascio molto al caso, lavorando con quello che trovo sul posto e improvvisando cercando di capire cosa il Caso vuole da me. La sensibilità che cerco di allenare è questa, il Caso ne sa più di me di sicuro, io devo solo attivare gli strumenti di bordo e stare attento e sfruttare questo lavoro altrui. Quindi se una foto vien bene non mi prendo tutto il merito».
E in questo periodo, hai qualcosa in programma?
«Eccome. Con Golab e Beart stiamo organizzando una mia personale a Miami alla Butter Gallery per la fine di quest’anno. Chi mi conosce sa che non faccio mostre tipiche di fotografia ma ragiono più in termini d’installazione. Chi viene a vedere le mie mostre deve uscire come da un frullatore-rock. Presto sarò a Trento nella nuova sede dalla Galleria Boccanera con un intervento che sarà sempre sopra le righe. Sto inoltre collaborando con alcuni marchi illuminati come Mecki’s, Hammerfest e altre riviste che mi confermano anche per il 2016, lì esprimerò al massimo l’energia per l’uno e l’eleganza per l’altro. I ritratti a Centrale Fies che è un posto dove le leggi fisiche non contano perché vibra nella sua propria maniera unica. Infine un lavoro assieme al Maestro Thom Puckey dove ci stiamo confrontando in uno spazio mistico: le sue sculture e le mie fotografie come un nuovo culto. Amen». Info: www.didofontana.com