Varèse, 50 anni fa

L’istituzione universitaria dei concerti (IUC) celebra il cinquantesimo anniversario dalla morte di Edgard Varèse con un concerto straordinario all’insegna della multimedialità. Nel ricco programma che l’Ars ludi ensemble, diretta da Tonino Battista, ha proposto all’Aula magna della Sapienza di Roma, spicca Déserts, uno dei brani-chiave per comprendere l’essenza del Novecento musicale, eseguito mentre su un grande schermo scorrevano i fotogrammi del video che nel 1994 Bill Viola creò ad hoc per la partitura. Siamo di fronte a un’opera composta nel 1954 e ricca d’una varietà incredibile di strumenti musicali inconsueti: quattordici fiati, cinque gruppi di percussionisti, pianoforte e nastro magnetico. È forse la prima composizione sperimentale di tipo elettronico. Varèse al tempo aveva ricevuto in dono un rudimentale magnetofono e si dilettava ad andare in giro per fare registrazioni, appassionandosi per lo più ai suoni industriali. Da qui l’idea di introdurre in Déserts un inventario di effetti acustici manipolati secondo il criterio della musica concreta, in modo da ordire una dialettica controllata con il materiale sonoro della musica tradizionale eseguita dal vivo.

«Per me Dèserts è una parola fortemente evocativa, suggerisce spazio, solitudine, distacco – scrisse Varèse – penso a tutti i deserti, marini terrestri e celesti, ma anche a quel remoto spazio interiore che nessun telescopio può raggiungere, un mondo di mistero e solitudine esistenziale». Ed ecco che il genio di Bill Viola ha creato un video che esalta quella correlazione tra suono e immagine, congenita nella composizione di Varèse. Il suono non può esistere senza il riverbero dello spazio. Nella percezione di chi ascolta l’occhio sonoro interagisce con l’orecchio visivo. Il deserto vibra già nelle corde del videoartista statunitense, anzi può considerarsi tema strutturale della sua poetica. È scenario ideale per rappresentare una congiunzione mitica tra mondo preistorico e universo post-futuro, ma anche adatto come fonte d’ispirazione per cogliere il senso dell’arcano e praticare una rieducazione percettiva dello spettatore, giocando sulla sensazione fisica del divenire. Il pendant visivo delle musiche di Varèse che Viola è riuscito a ideare, lungi dall’essere illustrativo o interpretativo, stabilisce un fertile interscambio col mondo sonoro del compositore d’avanguardia, costruendo una vera e propria terza dimensione dell’immagine.

«Ho organizzato una cascata di immagini con una turbolenza frenetica – scrive Bill Viola – vortici di acqua come fosse un flusso di coscienza». Irrequieto pioniere di un’estetica del futuro, Varèse, alla stessa stregua del Leverkuhn, protagonista in Doktor Faustus di Thomas Mann, definiva se stesso un Parsifal alla ricerca di una musica totalmente nuova, in cui il confine tra suoni e rumori può diventare talmente labile da perdere senso. Ugualmente Viola offre come contrappunto una partitura visiva in cui paesaggi desolati e fondali marini si avvicendano alla solitudine di una piccola stanza, in un cangiante fluire di immersioni e risalite, nello spazio e nel tempo. Sempre tenendo presente che, all’origine e alla fine di tutto, insistono il buio e il silenzio perché ci predispongono all’ascolto e allo sguardo, avvolgendo con il loro nulla tutti i suoni e tutte le visioni.

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