”Cercare adagio, umilmente, costantemente di esprimere, di tornare a spremere dalla terra bruta o da ciò ch’essa genera, dai suoni, dalle forme e dai colori, che sono le porte della prigione della nostra anima, un’immagine di quella bellezza che siamo giunti a comprendere: questo è l’arte”. Il Dedalus di James Joyce delinea il ritratto di un giovane artista, nell’episodio chiave del racconto Stephen viene spinto accidentalmente dentro un fosso pieno d’acqua dove passa una notte in preda ai suoi incubi, ritornato alla luce la sua concezione esistenziale cambia in maniera sostanziale iniziando a ribellarsi al sistema collettivo vigente. Il codice espressivo di Zaelia Bishop è la somma di una stratificazione mnemonica, come Stephen nel Dedalus, l’artista sonda le regioni più oscure dell’esistenza tornando alla luce con un bottino di ricordi, identità anonime, vite possibili, frammenti di fisionomie inenarrabili. Ha inaugurato negli spazi della galleria Flaq di Parigi, il nuovo progetto espositivo dell’artista intitolato Col Favore delle Stelle sotto la curatela di Claudio Libero Pisano, dove Zaelia ha presentato al pubblico un’inedita selezione di lavori. Trascorso il decennale percorso dedicato al progetto dei Diari del Dedalo, il lavoro di Zaelia attraversa una nuova fase di ricerca e sperimentazione. Pochi giorni prima del vernissage parigino abbiamo incontrato l’artista nel suo studio dove ci ha chiarito le premesse di questo inedito ed intenso viaggio creativo.
Questo progetto espositivo, sin dal titolo, Col favore delle stelle, possiede i connotati di una navigazione, un percorso che consente di percorrere un itinerario di viaggio grazie anche all’invocazione del cielo. Da dove nasce questo lavoro e soprattutto qual è la meta?
«Prima di iniziare questa navigazione è passato un periodo, all’incirca di due anni, nel quale non ho esplorato, sono rimasto fermo, avevo appena chiuso un lungo percorso dedicato ai Diari del Dedalo, dove mi sono concentrato nella scoperta di un territorio complesso e affascinante come quello della fanciullezza. Il ciclo si è concluso nel 2013 con un’installazione-cenotafio e tutto quel territorio indagato appariva in forma di mondo avvolto dalle tenebre, intese non come uno spauracchio cristiano, piuttosto come una regione primordiale, complessa da interpretare e rappresentare. È stato un tragitto impervio in cui ho costruito un’ideale lanterna che mi ha fatto scoprire un mondo abitato in egual misura sia dalla meraviglia che dalla crudeltà, una sottile linea di demarcazione che separa la fanciullezza dall’età adulta. Col Favore delle Stelle segna un nuovo sentiero, come se avessi raggiunto il delta di un fiume rendendomi conto di non avere con me una mappa. Se nei Diari del Dedalo conoscevo bene tale regione oscura, ora non ho più la consapevolezza di ciò che accadrà. Questo viaggio è un luogo estraneo e sono certo che durante il percorso non voglio più essere da solo».
Nei tuoi lavori esiste un costante riferimento alla memoria, una sorta di stratificazione geologica, reperti di un passato non troppo lontano che narrano di storie dalle esse minuscola, quelle storie del quotidiano dove poter scovare identità celate. Da cosa scaturisce la tua ricerca?
«C’è un’idea che mi affascina molto: assumere i connotati di uno speleologo. La mia discesa verticale presuppone la scoperta di un luogo sconosciuto, costituisce l’insieme di stratificazioni e delle loro conseguenti trasfigurazioni. Il mio è un tentativo di portare alla luce nel modo più inalterato possibile il bottino della discesa, sono odissee minime, racconti che non hanno intenzione di divenire universali, forse riguardano una piccola parte di persone. Ma sento di ottemperare in questa maniera al mio ruolo di artista, poiché un artista deve essere innanzitutto coraggioso, leale e feroce».
Il tuo linguaggio spesso si appropria di immagini fotografiche che rappresentano identità sconosciute, in quelle testimonianze iconografiche c’è qualcosa che riconosci e che parla di te?
«Non credo di riconoscere me stesso, piuttosto penso di intravedere un possibile me, riconosco una possibile biografia, un sentiero che potrei intraprendere o che viceversa semplicemente ho scansato. Di fatto in quelle fisionomie esiste un processo di trasfigurazione che diviene poi un vero e proprio distacco. L’opera percorre la sua via, va dove necessita di andare, non interferisce neanche più il legame con la memoria o addirittura con il proprio artefice, diviene un inevitabile abbandono. La ricerca di una mia personale memoria non rappresenta un affanno, nel momento in cui ha cominciato ad esserlo ho deciso di cambiare percorso».
L’impressione generale sul tuo lavoro delinea l’impossibilità di rintracciare una specifica determinazione temporale. Le tue opere riflettono la volontà di narrare spazi privati, attingendo ad un tempo dilatato che non è elemento proprio del contemporaneo. Il tuo vocabolario sembra appartenere ad un’altra epoca, eppure narri di un presente, quale compagine espressiva è radicata nel tuo codice estetico?
«La mia ricerca non vuole essere anacronistica e non ha interesse a presentarsi come visione contemporanea. Credo esistano artisti eccellenti che riescono ad interpretare il tempo moderno. La mia non è nostalgia verso il passato, quello che mi affascina è prendere ciò che di contemporaneo vedo attorno a me e custodirlo in luogo sospeso dove resta incolume e inalterato».
Nelle definizioni intorno all’arte emerge, o forse diamo per scontato, che sia qualcosa al di sopra delle nostre vite, eppure l’arte è stata sempre al servizio del potere, oggi è sicuramente al servizio di un potere economico, dunque, in ultima istanza, che cos’è l’arte e come poni il discorso nel dialogo contemporaneo?
«A me non interessa sapere cos’è l’arte, non credo neanche sia una risposta fondamentale, forse posso chiedermi com’è percepito l’artista nella contemporaneità, ma essenzialmente credo che dare una definizione sia in fondo irrilevante. Il mio linguaggio non è necessariamente sinonimo della mia arte, è solo un altro modo di raccontare una verità. Ricordo spesso artisti che si sono ribellati al potere e ce ne sono alcuni a cui oggi riconosco, con grande ammirazione, un alto livello di libertà. Dalle loro ambizioni hanno tolto il dialogo con qualsiasi struttura che si frapponga fra loro e la meta del tragitto che stanno percorrendo. Questo vuol dire togliere ogni ambiguità nel proprio percorso perseguendo una dimensione di vero coraggio. Guardo a questi artisti furibondi come fossero lanterne affidabili del nostro presente».
Hai definito un artista anche attraverso la sua ferocia, cosa vuol dire essere feroce?
«Essere feroce con se stesso, essere spietato con se stesso. La ferocia è la scelta di un linguaggio, ma soprattutto è la scelta di difendere il proprio linguaggio agli occhi di chi è un analfabeta dei sentimenti».
Siamo i testimoni del presente, dei nostri processi generazionali, in un ipotetico futuro di cosa vorresti essere testimone?
«Partendo da un senso di grande perdita, dei furiosi tentativi di trattenere vicino a sé le cose preziose, prima di tutto testimonierei la perdita dell’innamoramento».
Fino al 5 dicembre, Flaq galerie, rue Guenegaud 12, Parigi; info: www.flaqparis.fr
Photo Thomas Marroni