Parla Damiano Kounellis

Roma

Corre l’anno 1974, Joseph Beuys parte dalla sua abitazione in ambulanza, avvolto in una coperta di panno. La barella su cui è disteso viene caricata su un aereo della Croce Rossa che attraversa l’America. L’artista giunge infine nella René Block Gallery di New York, lì, all’interno degli spazi espositivi, incontra un coyote catturato nel deserto, condivideranno insieme quell’ambiente in una performance capitale nella storia dell’arte contemporanea che prenderà il titolo di Coyote. I like America and America likes me. Descrivere la complessità del lavoro di Beuys, uno degli artisti più influenti e rivoluzionari del dopoguerra, significa in prima battuta ripercorrere la storia del Novecento. Nato a Krefeld nel 1921, si arruola nell’aviazione tedesca durante la seconda guerra mondiale, nel 1943 l’abbattimento del suo aereo in Crimea segnerà profondamente il suo percorso professionale. Salvato da un gruppo di nomadi tartari, Beuys entrerà in contatto con le ataviche tradizioni della medicina degli sciamani, un’esperienza indelebile che diverrà protagonista del suo lavoro. Lo scorso 22 agosto, in occasione dell’apertura del Festival di Todi, ha inaugurato una mostra ospitata negli spazi della Sala del Capitano che vuole ripercorrere la carriera e la biografia di Joseph Beuys attraverso l’esposizione di testimonianze, fotografie, documenti ed opere originali.
Abbiamo intervistato Damiano Kounellis, curatore di Pianeta Beuys, che ci ha spiegato l’origine e il suo personale approccio nel creare e ideare questo complesso progetto espositivo in memoria di uno dei più grandi artisti tedeschi del Novecento. Joseph Beuys è una delle figure più complesse del XX secolo, la sua storia personale e la sua convinzione che il processo artistico fosse un comun denominatore universale (famigerata la sua affermazione secondo cui tutti possono essere artisti) contengono in sé anche i drammi che attraversarono l’Europa, dall’ascesa del nazismo fino alla conclusione del secondo conflitto mondiale.

Quali sono gli aspetti che hanno dato origine a questa mostra? «Nasce casualmente, parlando con Silvano Spada, direttore artistico del Festival di Todi, che ha avuto una grande intuizione scegliendo, in questo determinato momento storico, come ospite d’onore la Germania. Questa scelta mi ha molto colpito, sia per il coraggio, che per la profondità culturale. È così gli ho suggerito Joseph Beuys che ritengo essere il migliore artista tedesco del dopoguerra».

Tra le opere di Beuys The Pack, del 1969, credo rappresenti un elemento chiave nel comprendere l’identità dell’artista, in quella che fu una rievocazione dell’esperienza al fronte in Crimea, vi è nella vita di Beuys un legame che in un certo senso segna e sancisce una corrispondenza anche storica tra la Germania e l’Italia. Quanto fu profonda l’incidenza del nostro paese (ripenso ai soggiorni in Abruzzo nella tenuta di Buby Durini come ai suoi rapporti con Napoli grazie alla figura di Lucio Amelio) sulla produzione espressiva dell’artista? «Lui ha scelto l’Italia, ma l’Italia gli ha fornito il terreno fertile su cui approfondire la sua ricerca e ha accolto la sua espressione, pur nella diversità. Beuys come spesso ha dichiarato amava il mezzogiorno d’Italia, dove ritrovava la sua idea di comunità. Innumerevoli le sue tracce, a Foggia, in Abruzzo, e soprattutto con il suo gallerista Lucio Amelio a Napoli. Amelio aveva, com’è noto, raggruppato intorno a sé i migliori artisti della sua epoca, parliamo di Kounellis, Twombly, Andy Warhol, per citarne solo alcuni».

Sono diversi i documenti e le testimonianze storiche riferite a Beuys che verranno mostrate all’interno della Sala del Capitano, tra cui ad esempio le foto di Claudio Abate, quali aspetti del lavoro dell’artista hanno privilegiato le sue scelte curatoriali? «Si parla sempre del suo legame con l’Italia, talmente intenso e forte che è significativo che la sua ultima mostra, unanimemente considerata un addio, Beuys abbia scelto di farla al Museo di Capodimonte a Napoli, di questa straordinaria mostra, abbiamo le foto del miglior fotografo italiano: Claudio Abate».

All’interno di Pianeta Beuys verrà anche mostrato Vestito Terremoto un’opera che l’artista realizzò direttamente sul vestito di Lucio Amelio, per quale motivo ha scelto di dare spazio a questo elemento della produzione espressiva? «Ho scelto di dare ampio spazio a Vestito terremoto, unitamente al film Diagramma terremoto, che ritrae Beuys mentre ritaglia il vestito, girato dal maestro Mario Franco, perché anche questi sono legati alla relazione di Beuys con l’Italia e con la straordinaria figura del gallerista napoletano Lucio Amelio. E perché io Amelio lo ho conosciuto a Parigi, ero piccolo, e ne conservo un ricordo indelebile, e perché Napoli è una città che amo e dove ho anche pensato, un tempo, di voler vivere».

In ultima istanza, che cosa personalmente l’ha più affascinata della figura di Beuys? «Il suo lavoro».