L’attitudine cromatica del Trecento risiede nel prezioso utilizzo dell’oro, del blu lapislazzulo, del rosso cinabro, laddove un sentimento di astrazione solenne pervade le eteree composizioni in cui santi martiri e vergini misericordiose divengono icone post moderne di intercessione celeste. L’estetismo ieratico dell’iconografia cristiana antecedente al Concilio di Trento rappresenta, in prima istanza, un processo culturale e politico di alfabetizzazione del popolo. Le cosiddette Biblia Pauperum nascono per diffondere il verbo cristiano nella volontà solenne di dar vita a una catechesi collettiva dove, attraverso la potente arma delle immagini, gli uomini potessero celebrare la conoscenza della storia di salvezza. Scrive Pietro Bellini a proposito dei cicli illustrativi denominati Specula Humanae Salvationis: ”L’illustrazione costituisce di per sé stessa una catechesi semplice, elementare, particolarmente efficace, che attira l’attenzione e alimenta l’immaginazione e la fantasia, e quindi il sentimento di coloro che la guardano ma anche degli incolti e degli analfabeti, di coloro ai quali è di fatto interdetto l’accesso alla filosofia, alla teologia o anche alla letteratura”. Le parole di Bellini descrivono con precisione le caratteristiche imprescindibili che nutrono l’emergere di un mecenatismo di epoca medievale, teso a glorificare i martiri e i santi della Chiesa di Dio, esempi di venerazione e beatificazione. Il medesimo procedimento di celebrazione spirituale avviene in uno dei cicli d’affresco trecenteschi meglio conservati del nostro territorio, uno scrigno custodito a Tolentino dove le storie agostiniane di San Nicola rappresentano il riflesso sociale e culturale dell’epoca.
Il Cappellone della Basilica dedicata al santo patrono marchigiano, è un complesso e articolato impianto narrativo che celebra il processo di canonizzazione di San Nicola da Tolentino, avvenuto nel 1325. Molte ipotesi attributive si sono succedute e hanno tentato di chiarire la genesi e la paternità dei disegni, a partire da Johann David Passavant che è il primo studioso a parlare del Cappellone datando gli affreschi attorno al XV secolo. La comunità scientifica è attualmente concorde nel riferire l’opera a Pietro da Rimini e alla sua bottega, un maestro del Trecento italiano che i monaci agostiniani scelsero per poter realizzare un ciclo pittorico di prestigio. ”La chiamata dei riminesi a Tolentino – sottolinea Bellini – sembra obbedire a una strategia a più vasto raggio dell’Ordine Agostiniano”, strategia che vede nella figura di San Nicola l’esempio spirituale e miracoloso di rettitudine e carità cristiana. Il tessuto iconografico è spartito su tutta la superficie architettonica della cappella: nella volta i quattro evangelisti accompagnati dai dottori della chiesa, le quattro lunette con le storie tratte dalla vita della Vergine Maria, la fascia sottostante con la narrazione evangelica della vita di Cristo e infine nel registro inferiore gli episodi corrispondenti ai miracoli di San Nicola. La scansione dell’impalcatura decorativa è unitaria e uniforme, i costoloni della cappella intervallano gli episodi narrativi grazie ad una raffinata esecuzione di motivi geometrici e vegetali, dove al loro interno, trovano spazio busti di santi e martiri. La bottega di Pietro da Rimini esprime una profonda e immaginifica invenzione, ogni dettaglio, ogni accenno naturalistico è l’intento lampante di fornire allo spettatore una visione formale originale ed inedita. Alcuni particolari, come ad esempio le cattedre architettoniche dei quattro evangelisti, rappresentano l’espressione peculiare di una cultura preziosa ed aggiornata, ricca di espedienti iconografici che rendono l’intero impianto compositivo il frutto di diverse attitudini pittoriche afferenti però, al medesimo tempo, ad un unico linguaggio collettivo.
La rappresentazione pittorica asseconda un principio di somiglianza, la fotografia, invece, è ottenuta per contatto. ”La fotografia – afferma Philippe Dubois – definisce una categoria epistemica, una nuova forma non soltanto di rappresentazione ma, ancora più fondamentalmente, di pensiero, che ci avvia a un nuovo rapporto con i segni, il tempo, lo spazio, il reale, il soggetto, l’essere, il fare”. L’enunciato di Dubois avvalora il concetto di una modalità espressiva che è al centro della rivoluzione fotografica. Maurizio Galimberti si inserisce in maniera netta all’interno di questa visione concettuale, la sua riflessione linguistica, afferente all’utilizzo della polaroid come strumento interpretativo del reale, dona agli affreschi del Cappellone di Tolentino una nuova e inedita lettura. La scomposizione del corpus iconografico e la conseguente destrutturazione dell’impalcatura decorativa consentono di vedere per la prima volta il ciclo di immagini come un insieme frammentario ma che allo stesso tempo si avvale di un’azione sinottica dello sguardo, laddove ogni singolo elemento della composizione trecentesca diviene un prezioso unicum decorativo. Galimberti rovescia i canoni artistici per esaltare la pluralità e la combinazione dei generi. La sua caratteristica peculiare risiede nella manipolazione iconografia, ovvero nel bisogno di sottolineare un registro invisibile del reale.
Sotto lo sguardo del fotografo, come ad esempio nel dettaglio dell’angelo dalle ali policrome, tratto dalle storie della vita di San Nicola, la frammentazione musiva innescata dalla polaroid dona allo spettatore la traccia di un procedimento estetico che determina un rapporto con la pittura radicalmente diverso rispetto a quello innescato dalle maestranze trecentesche del Cappellone. Nei particolari della Crocifissione, nel carattere aulico dell’angelo che parla a San Nicola, nella sorprendente visione del Cristo risorto, nello studio tripartito della Vergine sofferente dinnanzi al Figlio sacrificato, in ogni singola scomposizione Galimberti riesce a cogliere in profondità l’essenza spirituale e religiosa dell’intero impianto pittorico, riuscendo a reinterpretare il capolavoro marchigiano utilizzando una metodologia formale che si allontana considerevolmente da qualunque estetica dominante. La disgregazione del vocabolario figurativo trecentesco innesca la possibilità di creare ab origine una nuova opera d’arte: la moltiplicazione delle mani, la ripetizione delle fisionomie, la duplicazione dei gesti simbolici di adorazione cristiana producono la concezione istantanea di una realtà fissata da secoli, in un’opera compiuta ed eterna.
Galimberti genera movimento, infrange l’ideologia dell’effimero che vede in una fotografia istantanea l’essenza stessa di un desiderio reazionario alla mera e obsoleta registrazione della realtà circostante. L’artista inventa la codificazione di un’archeologia dello sguardo, laddove la memoria è il frutto visibile di identità tramandate ai posteri. ”In un secondo l’opera – scrive Michel Durand Dessert – si è completamente definita, tutto quello che era stato possibile, i cambiamenti, le trasformazioni, l’inclusione del caso, gli imprevisti, tutto si è improvvisamente coagulato e l’opera è diventata quella che è; in quel preciso momento del suo svolgimento temporale essa era divenuta eterna”. Il prezioso scrigno di Tolentino diviene, attraverso lo sguardo di Galimberti, la manifestazione tangibile di una rivelazione, l’epifania contemporanea che dona al presente una nuova prospettiva ottica: la storia cede il passo all’eternità nella misura in cui il processo figurativo si appropria di un’esperienza visiva non più legata alla natura ma legata ai procedimenti concettuali ed intellettuali che un’immagine genera e stabilisce. Le sperimentazioni ottiche di Galimberti incarnano una complessa questione estetica che vede l’arte come fonte di apertura verso una messa in discussione dell’orizzonte concettuale dato. In questa articolata compresenza di valori etici e culturali la fotografia dell’artista rappresenta lo strumento privilegiato per dare corpo e materia a rappresentazioni iconografiche desunte dal passato ma che narrano un presente in continua evoluzione. Galimberti è riuscito ad attualizzare il corpus immaginifico del Cappellone di Tolentino, ha donato nuova vita alle icone di devozione religiosa che popolano lo splendido ciclo di affreschi marchigiano, ha impresso la sua firma riformulando in una chiave estetica innovativa l’essenza ieratica e mistica del Trecento.