“Andammo a Gibellina con l’architetto Zanmatti, il quale era stato incaricato dal sindaco di occuparsi della cosa. Quando andai a visitare il posto, in Sicilia, il paese nuovo era stato quasi ultimato ed era pieno di opere. Qui non ci faccio niente di sicuro, dissi subito, andiamo a vedere dove sorgeva il vecchio paese. Era quasi a venti chilometri. Ne rimasi veramente colpito. Mi veniva quasi da piangere subito mi venne l’idea: ecco, io qui sento che potrei fare qualcosa. Io farei così: compattiamo le macerie che tanto sono un problema per tutti, le armiamo per bene, e con il cemento facciamo un immenso cretto bianco, così che resti perenne ricordo di quest’avvenimento”. La catastrofe di Gibellina del 15 gennaio 1968 è un evento fondamentale nella storia di Alberto Burri, simbolo di un modus operandi che contraddistingue la volontà di una ricerca espressiva mai fine a se stessa e che prevede la spinta di generare un nuovo linguaggio, di interagire con la materia come nessuno mai aveva pensato prima di allora. Il Grande Cretto è l’immagine chiave del vocabolario utilizzato dall’artista: la materia povera, umile, connaturata da una forma che apparentemente non cede nulla alla vista, sprigiona tutta la sua forza metafisica.
Il percorso espressivo di Burri inizia nell’ambito della professione medica, nel 1940 dopo la laurea si arruola come ufficiale nell’esercito, nel ’43, durante il secondo conflitto mondiale, viene fatto prigioniero a Tunisi e trasferito l’anno successivo in Texas. La prigionia è il momento di svolta, Burri si avvicina all’attività artistica che da quel momento diverrà la sua ragione di vita. La materia è l’essenza della ricerca: ferro, legno, plastica, sacchi, stoffe, strumenti eterogenei che definiscono un’armonia propulsiva sconosciuta. Nella prima metà degli anni Cinquanta l’artista avvia la sua indagine materica attraverso la serie dei sacchi, il materiale logoro inizia a dare scandalo, gli Stati Uniti reagiscono subito alla novità e già nel 1953 l’artista viene consacrato attraverso una serie di mostre che daranno avvio ad una nuova stagione di ricerca contrassegnata dalla corrosione degli elementi. Nel 1957 le combustioni irrompono nel linguaggio di Burri, il fuoco diviene il medium d’elezione per modellare e plasmare l’inorganico, la plastica e il legno prendono vita, acquisiscono uno status monumentale come in Rosso plastica in cui è evidente un sentimento drammatico di consunzione laddove la dimensione del peso corporeo è narrata dal progressivo deperimento della materia che innesca immagini ultime di umanità. Negli anni Sessanta la sperimentazione giunge all’apice con la produzione dei Cretti. I cretti sono il risultato dell’essiccazione del caolino che produce un effetto craquelé, il susseguirsi delle crepe e delle fenditure creano un ritmo strutturale in cui la screpolatura determina l’emergenza di tracciare un inedito orizzonte figurativo. Il sudario di Gibellina è la sintesi di questo sviluppo, il Grande Cretto bianco di cemento è un velo di silenzio posato sull’ombra della distruzione, il sigillo indelebile di un vuoto che disegna una realtà spezzata.
Il 2015 sancisce, grazie alla ricorrenza dei 100 anni dalla nascita di Burri, la definitiva consacrazione di un artista che è perno del contemporaneo. Per l’occasione, anche il Guggenheim di New York si prepara a dedicare una grande retrospettiva al maestro di Città di Castello, curata da Emily Braun e prevista per ottobre. Sarà l’esposizione più grande e completa mai realizzata negli Stati Uniti da un museo di arte contemporanea, in cui figureranno prestiti concessi da istituzioni museali e collezioni private americane ed europee. In una famosa intervista realizzata da Stefano Zorzi, Alberto Burri ripercorre la sua carriera e il suo metodo tecnico ed estetico di ricerca, portando il discorso verso un’analisi completa del suo lavoro: “Nel mio cambiare i materiali non c’è nessun programma. Dopo un po’ mi annoiavo a usare la stessa materia, e così provavo i materiali a me più vicini, più facili. Perché non c’è nessun bisogno dei colori, dei pennelli. Non c’entra tanto il materiale, quanto piuttosto le forme e lo spazio nel quadro. Per me la costruzione geometrica del quadro è in effetti molto importante, ma è una geometria a me istintiva e basta. Non c’è altro”. La materia inorganica vive ancora nei lavori del maestro umbro, colui che ha raggiunto la creazione di un’immagine ove risiede «l’ombra onnipresente della vita». Numerose le iniziative per celebrare il centenario della nascita di Alberto Burri, lo scorso aprile una legge ad hoc ha istituito un comitato nazionale che ha “il compito di promuovere e diffondere, attraverso un adeguato programma di celebrazioni, di attività formative, editoriali, espositive e di manifestazioni artistiche, culturali e scientifiche, in Italia e all’estero, la figura, l’arte, l’opera e l’attualita’ di Alberto Burri”. Il centenario coincide con l’inaugurazione dell’Expo di Milano, proprio il comune lombardo ha stabilito che rinascerà nel Parco Sempione la macchina scenica del Teatro Continuo realizzata da Alberto Burri nel 1973 per la XV Triennale proprio come i cittadini milanesi la ricordano. L’evento più importante riguarderà il museo Solomon R. Guggenheim di New York che sta organizzando una grande retrospettiva del lavoro di Burri da inaugurarsi nell’autunno del 2015 grazie alla collaborazione con la fondazione di Città di Castello.