«Quando per la prima volta ho letto sul New York Times che sarebbe uscito l’iPad ho detto: questa cosa è per me. E allora ho iniziato a concepire progetti nati per questo strumento». Parli con Frank Horvat, oggi, ed è come se ti confrontassi con Henri Cartier-Bresson, Édouard Boubat, Helmut Newton, suoi colleghi, amici, cresciuti in quell’ambiente parigino in cui la fotografia era destinata prima di ogni altra cosa alla carta stampata ed era autosufficiente, definiva una storia, veniva pubblicata, il più delle volte, così come l’aveva vista il fotografo nel mirino della sua macchina fotografica. Nessuna manipolazione era accettata, salvo naturalmente in camera oscura. Horvat, dopo anni di lavoro con i più importanti magazine di moda, dopo i reportage in tutto il mondo negli anni ’50 e ’60, è probabilmente l’unico grande fotografo di quella generazione non solo ad aver accettato il digitale, ma ad aver pensato per il digitale. Accettare il digitale non significa sostituire i rullini con le memory card, significa concepire una fotografia destinata alla fruizione digitale. Negli ultimi dieci anni, l’interesse del fotografo si è spostato dalla fotografia a sé stante verso un percorso mentale tra due o più immagini. Un risultato che solo la fruizione digitale può permettere: il tap sul tablet crea collegamenti che un giornale o un libro non possono creare.Lo abbiamo intervistato per capire meglio la sua sensibilità tecnologica.
La sua App Horvatland è profondamente pensata per iPad, si esplora nel modo più personale possibile.
«Funziona come il nostro cervello, per associazione di idee. Per ogni foto pubblicata sull’App ci sono tutta una serie di riferimenti che portano il pubblico altrove. Questi collegamenti sono le keywords. È possibile seguire migliaia di itinerari, ognuno segue la propria logica, è la bellezza dello strumento».
È lei però, che inserisce le keywords, che guida il lettore attraverso un percorso.
«Il fotografo è sempre al centro, offre il punto di partenza. Ma la fotografia è cambiata proprio in questo senso, l’autore ha sostituito il soggetto. Maxime Du Camp andava in Egitto a fotografare le piramidi perché nessuno aveva mai visto le Piramidi. Oggi tutti hanno visto le piramidi e l’unica cosa che interessa è il modo in cui il fotografo le vede e le comunica. Le parole chiave con cui si naviga Horvatland rappresentano il modo in cui ho visto il soggetto».
Sessant’anni di fotografie che sono state stampate su magazine e libri sfogliati da sinistra verso destra, quando sono entrate nel database di Horvatland hanno creato una ragnatela.
«È un percorso che si snoda attraverso scelte per lo più binarie. È un trip through your mind. Il lettore attivo si stupisce di fronte a qualcosa che contribuisce a costruire e a immaginare. La forza di una serie di fotografie sta nell’immaginazione che essa stimola, più che in ciò che viene mostrato. E la grande differenza tra la pubblicazione su iPad e la messa in pagina su carta è che sulla carta non puoi nascondere o scegliere di guardare in un secondo momento. Su iPad, invece, non esiste più il problema tra dire troppo e dire troppo poco: il lettore ha la possibilità di far comparire e scomparire le cose che non interessano, molto semplicemente».
E che cosa resta, oggi, della fotografia classica, dei suoi fondamentali?
«Naturalmente la fotografia deve fermare momenti irripetibili. La fotografia dev’essere sempre, oggi come ieri, un miracolo».