Parente o l’impalpabilità

Impalpabile, questa è la miglior definizione del lavoro fotografico di Flavio Parente. Identità sussurrate, un percorso espressivo in cui i luoghi, il tempo, le fisionomie non costituiscono più la percezione accomodante dei nostri sensi. I punti di riferimento che coltiviamo a garanzia della realtà vengono a mancare, lo spazio interiore si intreccia inestricabilmente allo spazio esteriore, generando un universo eterogeneo dove dati reali e dati immaginari narrano esperienze sensibili. L’artista dietro la scelta di una posa, di una prospettiva, di un taglio compositivo sonda i meccanismi che lo portano a ridefinire il concetto stesso di conformità. Le immagine compongono anonime sembianze che conferiscono al corpo la sacralità inorganica di un oggetto inanimato. Inaugura il 6 febbraio il progetto espositivo di Parente intitolato Sublimazioni – In anima – le regioni dell’anima ospitato presso gli spazi del Mau il Museo d’arte urbana di Torino, in collaborazione con l’associazione culturale Hulahoop, sotto la curatela di Togaci e di Edoardo di Mauro. La mostra raccoglierà differenti opere dell’artista: dalle prime sperimentazioni risalenti al 1999 fino ai recenti lavori che narrano in maniera suggestiva il Rinascimento e il Barocco romano. Abbiamo intervistato Parente per esplorare in profondità la sua cifra stilistica, cogliendo nel suo vocabolario concettuale le radici espressive della sua personale ricerca.

Scrive Jean Baudrillard: ”Qualsiasi essere umano è il luogo di una messa in scena, il luogo di una (de) costruzione complessa. Pare sia impossibile cogliere un istante in cui l’essere più banale o più mascherato mostra la sua identità più segreta. Piuttosto che cercare l’identità dietro la maschera occorre cercare la maschera dietro l’identità”. Quale procedimento inneschi nella ricerca di un’identità da ritrarre?

«Hai presente la sensazione che provi al risveglio dopo aver fatto dei sogni intensi? Non mi riferisco ai sogni legati alla realtà ma a quelli più inconsci in cui ti ritrovi in dei paesaggi costruiti dalla tua mente, luoghi interiori che non conosci o che hai la sensazione di conoscere pur non essendoci mai stato? Ebbene quei luoghi li hai disegnati, creati, scenografati, illuminati con la tua mente. Ogni notte ognuno di noi crea, poi al risveglio ecco quella sensazione di cui parlavo, ricordi e allo stesso tempo non ricordi, tenti e cerchi di afferrare più dettagli o elementi che ti aiutino a ricomporre il sogno appena fatto, non riuscirai completamente a ricordare ma ciò non importa.

Quello che veramente importa è la sensazione che quel tuo sogno ti ha lasciato. Quei paesaggi che la tua mente ha disegnato sono l’opera che quella notte hai creato e che l’artista, che sarebbe il tuo inconscio, sta mostrando allo spettatore nella fase razionale del risveglio cosciente. La sensazione che ti lascia e le informazioni che ne trai saranno piccoli tasselli che andrai ad aggiungere alla tua coscienza e alla tua conoscenza, mentre quello stato d’animo che ti lascia sarà l’angelo che ti accompagnerà durante la giornata. Tornando alla domanda il procedimento è il seguente: per mezzo della luce, ritrovata naturalmente o creata artificialmente, mi tuffo nel mio pensiero inconscio ed irrazionale non legato alla realtà ma frutto di una serie di elementi che si incontrano nella via di quell’istante che diventa il luogo di chi fotografa e di chi è fotografato».

La fotografia ci mette davanti all’oggetto immobile e silente, potremmo addirittura definire il linguaggio fotografico come l’equivalente di un deserto. Cosa attrae il tuo sguardo per giungere alla conclusione di immortalare un soggetto?

«Non mi è possibile rispondere a questa domanda perché non scattando in modo razionale non vengo attratto da ciò che vedo ma da ciò che diventerà nel momento in cui tutti gli elementi si danno appuntamento in quel luogo: la via dell’istante. In quel momento, solo in quel momento, l’oggetto non sarà più immobile o silente ed urlerà a squarciagola la sua esistenza».

”Alcuni non vogliono farsi fotografare – afferma Lehman – detestano l’apparecchio che, dicono, ruba la loro anima o una parte di se stessi. Nessuna rassomiglianza, nessuna oggettività. Può essere che non si amino a sufficienza o che siano una falsa immagine di se stessi”. Ritieni di inseguire l’onestà di un’immagine nella tua produzione?

«Posso dire di ricercare tale onestà ma di non trovarla ogni volta. Funziona solamente quando riesci a condurre luna, luce e astri come soggetto fotografato in quella via di cui parlavamo prima, solo lì si spoglierà di ciò che detesta e si mostrerà a te».

Cosa significa una mancanza di produttività visibile per l’identità di un artista?

«Non ho idea di cosa significhi forse perché sono disturbato dal contrario, cioè da una produttività continua di idee e di percezioni, come fosse un incontrollato galoppare dei miei pensieri. Sono pienamente connesso con essi, talvolta gli do una forma realizzando un’opera ma la maggior parte delle volte invece semplicemente me ne appago e divengono tasselli della mia esistenza, coscienza e conoscenza».

I tuoi lavori afferiscono a diversi linguaggi, la fotografia rappresenta solo una parte della tua produzione che vede nella regia documentaristica, cinematografia e nella video arte un’ulteriore essenza della tua opera espressiva. Quali differenze esistono nei diversi mezzi tecnici che utilizzi e di cui ti avvali?

«Non cambia nulla sono mezzi differenti che hanno sempre lo stesso comun denominatore la luce e la ricerca di quella ormai famosa via dell’istante. Inizia a piacermi potrebbe essere il titolo del prossimo progetto».

Il progetto espositivo Sublimazioni – In anima – le regioni dell’anima narra le diverse rappresentazioni di realtà eterogenee a cui tu hai dato una tua personale impronta, cosa vorresti lasciare allo spettatore che verrà in contatto con il tuo lavoro?

«La stessa sensazione che lascia la vita o il sogno: l’impalpabilità».

Fino al 28 febbraio, via Rocciamelone 7, Torino; info: www.museoarteurbana.it