Barbero e Munari

Galleria Campari rinnova l’ormai classico appuntamento di Conversazione con… ciclo di appuntamenti pubblici che favoriscono l’incontro e il confronto con i professionisti della cultura contemporanea. Protagonista, giovedì 20 novembre, a partire dalle 18,30, Luca Massimo Barbero. La Declinazione grafica del nome Campari, opera realizzata nel 1964 da Bruno Munari, giunta quest’anno al suo 50esimo compleanno, realizzata in occasione dell’inaugurazione della prima linea della metropolitana di Milano, dà il via a un dibattito su arte, design e advertising, per capire quali siano i rapporti che governano questi tre mondi e la loro evoluzione. In occasione di questo importante anniversario, è stata allestita anche una nuova esposizione nel Campari Wall, struttura che accoglie i visitatori all’Hq del Gruppo Campari nella sede di Sesto. In mostra fino al 10 gennaio, tre opere di Munari, realizzate tra il 1984 e il 1985, che rappresentano l’evoluzione grafica e compositiva del famoso manifesto: Variante unica del primo collage, su fondo rosso magenta (1984), Limiti di leggibilità di un logotipo, su fondo giallo (1985) e Momenti dinamici di un logotipo, su fondo nero (1985). Abbiamo sentito Barbero per sapere meglio su cosa verterà l’incontro.

Munari ha dato contributi fondamentali in diversi campi dell’espressione visiva come la pittura, scultura, cinematografia, disegno industriale, grafica ma anche non visiva, pensiamo alla scrittura, poesia e didattica in genere, insomma un artista a tutto tondo. «Confesso che ancora fatico a pensare a Munari come un artista tutto tondo, lo vedo come un pensatore, anzi un operatore, un termine che lui declinava in vari modi con delle accezioni sempre molto precise, come visualer o designer. L’idea è che Munari rappresenti un’unicità molteplice nel panorama italiano, e parlammo di un panorama molto vasto, straordinario che lega due epoche in modo forte, quasi indissolubile: gli anni Trenta e Quaranta con il dopoguerra, gli anni Cinquanta e Ottanta anche se l’arco cronologico dell’opera di Munari è più ampio. Un operatore visivo, estetico, oggettivo, un vero unicum nel contesto italiano. Partire, quindi, da un manifesto, da un’operazione visuale o di contestualizzazione grafica che è quello della Campari, e le varie declinazioni successive, dove si parli di logo di lettering e anche di percezione, un manifesto visto in corsa dalla metropolitana, con un concetto radicato in Munari che è quello futurista».

La ricerca dell’artista è poliedrica sul tema del movimento, della luce e dello sviluppo della creatività e della fantasia nell’infanzia attraverso il gioco. L’arte e i bambini, i bambini e l’arte, è in effetti un legame che non si dovrebbe mai sciogliere anzi rafforzare sempre di più? «Munari spiega che non ci dev’essere un’arte staccata dalla vita, ovvero cose belle da guardare, dice lui, e cose brutte da usare. Allo stesso tempo, l’arte che non può slegarsi dalla vita, non può non prendere in considerazione i bambini, cioè proprio la radicalità, un termine che uso spesso con Munari, la quieta radicalità naturale delle vita, quindi i bambini. Il tema forse principale, oltre alla semplicità, di Munari è sicuramente la serietà del gioco o meglio la capacità tutta ludica di lavorare di Munari che si applica al concerto di gioco. Non dimentichiamo una delle collaborazioni più interessanti e divertenti di quegli anni, se volgiamo usare seriamente quel termine, sia in Italia ma anche livello europeo, sono una serie di libri per l’infanzia di Rodari e Munari. Ma attenzione, non solo un produttore di racconti per bambini o un artista a cui piace giocare nel suo iter di lavoro, ma è propio un creatore di laboratori didattici, è anche il fondatore di una certa modalità di comunicazione, e anche qui si percepisce quel senso di freschezza, di nuovo, nel suo lavoro. Per quanto mi riguarda pensando a vari progetti come quello di Guggenheim, ho un forte interesse non tanto di lavorare con i bambini, quello sarà un risultato finale, ma di rapportarmi proprio con gli adulti che in seguito lavoreranno con i bambini. Formare i formatori, quasi l’arte potesse diventare uno strumento di questo gioco».

In galleria una conversazione su arte, design e advertising, ci può dare qualche anticipazione? «Munari dice agli artisti ma anche ai designer di uscire dello studio e di guardare le strade, i colori e le vetrine, che l’arte si deve aprire anche a questa forma di comunicazione. La discussione in galleria Campari è molto interessante, utilizzare Munari come punto di partenza, quindi il suo credo, la sua idea oggettiva, per arrivare a una sua affermazione dove sottolinea che l’operatore visuale contemporaneo stimola soltanto gli aspetti animati di coloro i quali guardano la comunicazione visiva, un incontro molto stimolante dove parlare della comunicazione attuale rispetto a come il designer vede il pubblico e a che tipo pubblico vuole raggiungere. Da ricordare la continuità di un’azienda come Campari rispetto alla collaborazione con alcuni artisti atipici come Depero che ha legato ad essa in modo indissolubile e anche lo stesso Munari, da qui affrontare nel dibattito anche il rapporto tra azienda e arte e quali sono le realtà che continuano ancora oggi a farlo».

Non è certo il primo appuntamento che la vede a confronto diretto con il pubblico, quanto è importante rapportarsi con le persone? «Gli incontri pubblici, e non parlo delle conferenze di natura accademica, sono molto importanti perché non uso solo un linguaggio tecnico, cioè non mi pongo come colui, e questo il pubblico lo sa, che porta il verbo, anzi l’occasione collettiva è un modo per analizzare con il mio intervento la qualità di certi artisti o come nel caso di alcuni incontri recenti, di un gruppi artistici o di certe correnti artistiche come Azimut. Per me è come un test, quello che mi interessa non è l’occhio dello specialista, già condizionato con una idea, fissa, delle certificazioni, mente l’incontro con il pubblico serve ad affrontare serenamente delle argomentazioni che potrebbero sembrare tecnicistiche. Incontri aperti, in modo mai polemico, mai professorale».

Insieme allo spaziale Lucio Fontana, Bruno Munari domina la scena milanese degli anni Cinquanta-Sessanta, una città che vede nascere in quel periodo storico un nuovo modo di vedere il mondo con gli occhi dell’arte e non possiamo non parlare di Azimut. «Proprio in questi giorni, ripensando a Munari, mi è sempre più chiara, quella che chiamo la verifica intorno al mio lavoro, che può essere una mostra, un incontro, rivedere, ripensare, ricondividere o condividere un momento artistico o comunque un artista. Torno a pensare alla radice germinale di quella Milano straordinaria, che per quanto Munari e i giovani artisti di Azimut non si incontrassero, perché la libertà provocatrice e liberatoria di Azimut non è strettamente in linea con il Mac, movimento arte concerta, che guidava Munari stesso, un legame era comunque presente perché non era solo la città di Fontana ma anche di Munari e del nuovo design italiano».

Tra le frasi celebri di Munari ricordiamo: ”quando qualcuno dice: questo lo so fare anch’io, vuol dire che lo sa rifare altrimenti lo avrebbe già fatto prima”, una frase presente nel Verbale scritto del 1992 che sembra descrivere in poche parole il pensiero di chi non riesce a capire l’arte contemporanea. «Munari non la esprime solo riferendosi all’arte contemporanea ma la utilizza per parlare di quella essenza delle cose o la loro essenzialità, quindi quando la gente vede qualcosa di estremamente semplice, essenziale, appunto, in effetti lui si riferisce anche al quotidiano, o alla così dette sculture da viaggio, o agli oggetti inutili. Quando l’uomo di trova davanti a un qualcosa di evidentemente esemplificato strutturalmente essenziale, dice che lo può fare che lui, ma in realtà probabilmente non potrebbe nemmeno pensarla. Una frase, quella di Munari, straordinariamente pericolosa, ma molto divertente dove già rifletteva sugli oggetti industrializabili, con una natura ripetitiva, riproduttiva.

Le sue mostre, gli approfondimenti, gli incontri, sono carichi di un passione che va oltre la professionalità, toccando la didattica. «Penso che la mostra non sia mai pesantemente didattica, ma sento di essere più un regista dello sguardo, cioè imporre in modo personale le opere, allestendolo in modo semplice ma dando a ogni singola opera un valore di porta di percezione. La didattica ha un fine, mentre le mie mostre non hanno degli enunciati ma viaggiano sulla soglia delle percezione, come se creassi un set momentaneo, una racconto in cui l’agitatore o il reagente è sempre il visitatore che non considero mai come un’entità passiva da riempire, sia nelle mostre storiche che nella interazioni dirette».