L’Art director che si scopre pittore

A poco dalla chiusura della mostra Visuart abbiamo incontrato nel suo studio milanese Lorenzo Marini. Attualmente art director italiano tra i più celebrati, Marini ha in tutti questi anni continuato, nel silenzio e per se stesso, a dipingere, portando avanti una ricerca pittorica pura. Questo è quello che ci ha svelato della sua arte.

Si è di recente chiusa la tua antologica Visuart, 15 anni di opere mai esposte tenutosi, a Villa Vertua Masolo, a Nova Milanese. Che esperienza è stata?
«È come rendere pubblico il privato. Da un certo punto di vista ero riluttante poiché, dopo anni che lavori senza il bisogno di condividere, decidi di coinvolgere altre persone e raccontare tutto quello che hai fatto: è la poesia dell’inizio! È come aver tenuto una Ferrari nel box per anni, arriva il momento in cui fai una corsa e dopodiché scopri che l’obiettivo è godere la bellezza del vento».

Come mai la decisione di rendere pubblica la tua arte che fino a prima rimaneva ben nascosta e custodita?
«Devo dire che ho incontrato un art manager, Milo Goj e lui ci ha messo anni per convincermi. Da quando, tre anni fa, ha venduto un pezzo a un asta benefica a Milano, lasciando stupito pure me per quanto la cosa fosse stata semplice e positiva. Ho incontrato poi uno dei più bravi critici, uno dei top five in Italia: Giacinto Di Pietrantonio. Prima di partire con questa esperienza ho parlato con lui, che non solo mi ha incoraggiato ma mi ha fatto un pezzo critico molto bello. E da qui si parte. Si parte verso dove? Verso la luna ovviamente, vero un’altra dimensione, verso un altro cielo. Ho già a che fare con la quotidianità, con la precisione e l’iperrealismo nel mio lavoro, quindi voglio l’altro aspetto della fantasia e dell’intuizione».

Sono molto affascinata da questa idea del nascondere ciò che in realtà nasce per essere mostrato, ponendo così, per opposizione, al centro del tuo lavoro il significato del mostrare. Lo trovi come uno dei valori chiave per la tua attività artistica?
«Nascondere è un’interpretazione che mi ha dato Giacinto di Pietrantonio, lui sostiene che io usi il bianco come una sorta di cuscinetto stabilizzatore o come una lente satinata che distanzia lo sguardo di chi vede. Ma l’interpretazione che sento più vicina è quella della neve. La neve non è il bianco che cambia il colore delle cose, si posa sopra e da un’apparente colore. Il bianco come difesa del colore. È come se la tua “anima”, che è la tua vera essenza, fosse coperta da una cosa di nome “corpo”. Cambia la percezione ma in realtà tu sei un’anima e hai un corpo e quello che io dipingo sono dunque dei concetti, delle idee, delle anime spaziali. Il corpo che è questo bianco, è quasi un gioco a nascondino per vedere dov’è l’anima. E riaffiora così il tema del nascondere: noi abbiamo una dualità culturale immanente, come siamo individuali o sociali al tempo stesso, siamo estroversi e introversi. Per me la parte della pubblicità è estroversa, la parte dell’arte è introversa, non ho bisogno di fare ricerche, non ho bisogno di sapere quello che pensa il consumatore semplicemente non mi interessa. Cerco di fare un percorso e se qualcuno è interessato condivido ben volentieri. Per quanto mi riguarda non sono attratto né dal sociale, né dal quotidiano, né dalla protesta; sono attratto da qualcosa di mistico, da qualcosa di astrale, da qualcosa che c’è dietro. Quando mangio una mela penso che tre mesi prima era un fiore, quando bevo l’acqua penso che tre mesi prima quest’acqua era in qualche parte delle Dolomiti e che ha fatto un percorso molto lungo, si è mineralizzata ed è poi venuta fuori come fonte. Quindi ogni volta che fai qualche cosa c’è un pensiero che ti riporta allo schema originale. Trovare il senso dietro ad ogni cosa, questa è un po’ la direzione del mio lavoro!».

Le tue opere agiscono sullo spettatore che è reso partecipe poiché privato dalla passività della contemplazione. Ti poni la questione dell’opera “aperta” intesa come realtà che vive nella relazione con chi la osserva? Che rapporto hai con il tuo nuovo pubblico?
«Allora si, ho fatto un esperimento in questa antologica (che non ripeterò nella prossima): ho spiegato le opere di volta in volta, ad ognuno. Volevo fare dei pezzi senza titolo – già il titolo lo metto nel mio lavoro – ma ho sbagliato perché manca un ancoraggio. Credo che in futuro scriverò, non un titolo ma del testo vicino, dentro o dietro ai quadri, o nascosto o allegato. Così chi compra il quadro ha anche la frase poetica, un rational, una dedica al cuore e all’intelligenza. In fondo, anche gli aquiloni hanno un filo che li lega alla terra. Questo è la parola»

La scelta di rimanere nel silenzio si palesa anche nel bianco delle tele, c’è una connessione tra le due cose?
«Il bianco è il silenzio perché la cosa più bianca del mondo è la neve. Ovviamente noi pensiamo che ci sia un solo bianco, ma ci sono in realtà molte gradazioni di bianco, non solo dal punto di vista tecnico, ma anche nel nostro modo di essere, poiché il bianco prende la luce che c’è fuori, è dunque la base su cui si posa ogni cosa. Il bianco è quanto di più vicino all’assoluto ci sia. Quando non uso il bianco uso materiali bianchi: il sale, lo zucchero, la madreperla, le foglie d’argento, il gesso, perché sono interpretazioni parziali del grande bianco».

Come nascono le tue opere? Ci parli un po’ dei momenti e del contesto in cui crei
«Di sera, di notte. Poiché, di nuovo, la luna è legata all’aspetto femminile dell’universo, quello introverso, mentre il sole è estroverso. Hai presente Yin e yang? Il leone e la leonessa sono potenti nella stessa maniera, ma il leone ha la criniera, perché è estroverso. Ciò che è femminile è introverso: l’orgasmo maschile è evidente, quello femminile no, così come l’eccitazione maschile è evidente e la femminile no, poiché sono due parti diverse della natura unica. Anche in una pianta di zucchine, c’è il fiore maschio e il fiore con la zucchina che è femmina, poiché quest’ultima genera, crea. Anche da un punto di vista sociale siamo arrivati sulla luna alla fine degli anni ’60, da lì è nato il femminismo. C’è una relazione molto stretta tra le scoperte di simboli e le loro influenze nella nostra vita».

Cambiamo tematica, ho letto che hai studiato a Venezia e poi con il maestro Vedova
«Allora ho fatto lo Iuav che è la facoltà di architettura con Aldo Rossi, e un sacco di altri nomi importanti ma mi mancava disegnare; dunque al secondo anno ho deciso di fare un anno di accademia con Vedova. Ricordo che disegnavo fumetti e che lui aveva una personalità talmente tanto forte che vedevo che quasi tutti erano “vedovati” e alla fine del corso tendevano a fare le sue stesse cose».

E rimane traccia dei suoi insegnamenti nel suo lavoro?
«Poco e tanto, direi. Lui era molto attratto dal segno, dalla violenza e dalla tensione, il suo bianco e nero era molto politico. A me interessa l’essere astrale, la sublimazione, l’armonia. Ma amo la sua energia. Quando per esempio guardo le stelle, (ho una casa nel silenzio che è dietro il lago d’Orta in mezzo ai boschi di betulle, faggi e noccioli selvatici dove dipingo) mi piace connetterle da solo, creare dei miei disegni. Alcune opere sono appunto delle costellazioni, perché ogni uomo disegna la sua forma nella notte. Vedova era un artista di terra, io amo il cielo.

Domanda di rito finale, progetti per il futuro legati a questa dimensione artistica? Ci vuoi anticipare qualche cosa?
La prossima personale sarà ai musei di Padova, dall’8 al 22 di marzo, ma ci sarà anche Milano e Roma. Come tema artistico inizierò Typevisual, per le armonie dietro alle lettere e la bellezza della loro pura geometria. Sto elaborando di stabilire un percorso con determinati tempi, cioè non credo che continuerò per tutta la vita a fare gli Advisual, credo che arriverò a 50 pezzi e poi mi fermerò. Lo stesso per le costellazioni. Già la pubblicità insegna che la ripetizione è tutto e nell’arte non voglio che sia così. Dall’architettura ho imparato che la città ideale greca, la polis, può ospitare fino a ventimila persone, raggiunto questo numero se ne fa una nuova, da un’altra parte. Non si può espandere all’infinito una città poiché ne perde la sua natura, dunque credo che potrei essere il primo artista vivente che a un certo punto smette per aprire un tema nuovo. In fondo, accettare scommesse è l’unico modo per perdere. O vincere.