Artissima 2014: conclusioni

Torino

«Finalmente il viaggio conduce alla città di Tamara. Ci si addentra per vie fitte d’insegne che sporgono dai muri. L’occhio non vede cose ma figure di cose che significano altre cose: la tenaglia indica la casa del cavadenti, il boccale la taverna, le alabarde il corpo di guardia, la stadera, l’erbivendola. Statue e scudi rappresentano leoni delfini torri stelle: segno che qualcosa chissà cosa ha per segno un leone o delfino o torre o stella. Altri segnali avvertono di ciò che in un luogo è proibito entrare nel vicolo con i carretti, orinare dietro l’edicola, pescare con la canna dal ponte – e di ciò che è lecito – abbeverare le zebre, giocare a bocce, bruciare i cadaveri dei parenti. Dalla porta dei templi si vedono le statue degli dei, raffigurati ognuno coi suoi attributi: la cornucopia, la clessidra, la medusa, per cui il fedele può riconoscerli rivolgere loro le preghiere giuste. Se un edificio non porta nessuna insegna o figura, la sua stessa forma e il posto che occupa nell’ordine della città bastano a indicarne la funzione: la reggia, la prigione, la zecca, la scuola pitagorica, il bordello. Anche le mercanzie che i venditori mettono in mostra sui banchi valgono non per se stesse ma come segni d’altre cose: la benda ricamata per la fronte vuol dire eleganza, la portantina dorata potere, i volumi di Averro è sapienza, il monile per la caviglia voluttà. Lo sguardo percorre le vie come pagine scritte: la città dice tutto quello che devi pensare, ti fa ripetere il suo discorso, e mentre credi di visitare Tamara non fai che registrare i nomi con cui essa definisce se stessa e tutte le sue parti».

Nelle parole di Italo Calvino, tratte dalle Città Invisibili, Tamara rappresenta un luogo di immagini e simbologie in cui il visitatore si trova disperso nelle fitte insegne che popolano le strade, così numerose e intricate da rendere irriconoscibili i luoghi che demarcano. La traccia di questo complesso tessuto urbano è l’esemplificazione dei percorsi costruiti all’interno di Artissima, l’internazionale di arte contemporanea conclusasi lo scorso 9 novembre a Torino.
Esistono i numeri, le statistiche, i record, qualsiasi cifra venga messa al centro della cronaca possiede un segno positivo: 50mila visitatori durante i giorni della fiera, il 10% in più rispetto alla precedente edizione, + 30% di vendite per le gallerie, e ovviamente una diffusione capillare tra la stampa, i social network e i differenti mezzi di comunicazione web e cartacea. All’interno di questo grande recipiente di informazioni, di dati, di numeri sciorinati in maniera inesorabile, l’esigenza primaria risiede nel formulare un giudizio che contenga differenti presupposti. Il prestigio di una manifestazione come Artissima è insindacabile, come insindacabile è la constatazione che le gallerie italiane e internazionali, presenti alla manifestazione, giocano, nel complesso mercato dell’arte, un ruolo fondamentale nell’interazione tra artisti e collezionisti, ma oltre questo limite in cui il gioco diviene questione di prezzi e cifre impossibili, cosa essenzialmente coinvolge lo spettatore? Il potere finanziario di istituzioni come Artissima conferisce all’opera d’arte un posto di privilegio, un riconoscimento sociale e soprattutto ”un’autentica forza contrattuale”, tanto da divenire un capitale simbolico che plasma il gusto di una collettività.

Eppure la sensazione latente che si insinua tra le luci patinate della fiera è l’assenza di nuove forme di espressione, di opere che siano capaci di interagire con lo spettatore, di una sperimentazione che non sia a uso e consumo di élite aristocratiche pronte a esaltare le ultime tendenze chic da esporre nelle sontuose residenze di proprietà. Nella fiera torinese la linea estetica predominate ha livellato ogni apporto esterno, è mancata una componente essenziale che è frutto della tecnologia, dell’interazione con il pubblico, di un’esigenza di essere sempre più vicini all’opera d’arte.

Il XXI secolo narra di inediti processi scientifici, di materiali mai conosciuti prima, di mezzi tecnici che spaziano verso una dimensione cognitiva mai sperimentata precedentemente, la tecnologia, in particolar modo, è entrata nelle nostre vite quotidiane modificando ogni forma di atteggiamento sociale ed individuale. L’arte, in questo senso, è da sempre lo specchio del cambiamento e lo si evince dal’evoluzione metodologica di fruizione dell’opera, che specie in questi ultimi dieci anni, è la manifestazione di un pensiero collettivo e di una compartecipazione pubblica in cui l’esperienza estetica vede nello spettatore una componente dell’oggetto, l’articolazione indispensabile che fa esistere l’opera d’arte.

L’arte sta vivendo una grande fase di evoluzione, ne è prova la crisi che il sistema economico mondiale, di cui ne è soggetto attivo e partecipe, sta maturando nei paesi dell’Occidente industriale. La galleria, come istituzione, non può fare a meno di cogliere questi evidenti segni di cambiamento, per questo il sistema ha bisogno di nuova linfa vitale, di stravolgere i dogmi su cui si basa, abbracciando la scelta di mettere da parte le questioni riservate a una èlite privilegiata per produrre capolavori da condividere con una società sempre più globalizzata e interattiva che necessita, prendendo in prestito la terminologia coniata da Bourriaud, di un’estetica radicante frutto di una contaminazione di generi e di culture, non più relegate ad un multiculturalismo post coloniale, ma a un’apertura al mondo che sia in effetti la nascita di un’inedita Altermodernità.

 

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