Word play, Daniele Tozzi

Word Play, gioco di parole, è il titolo della prima personale dell’artista Daniele Tozzi, che ha inaugurato negli spazi della galleria Varsi di Roma. La mostra, curata da Marta Gargiulo, raccoglie una selezione di calligrammi, ovvero figure delineate attraverso la composizione di parole che l’artista trae da una serie di canzoni rap italiane, facendo della mostra un tributo alla musica ascoltata per un’intera adolescenza e allo stesso tempo un tentativo di ricostruire il proprio background culturale. Daniele Tozzi infatti ha il suo primo contatto con il mondo del colore e delle parole attraverso il writing, quando, intorno alla metà degli anni ’90, inizia a realizzare graffiti utilizzando diversi pseudonimi tra cui quello di Pepsy. Questa passione nel tempo si evolve e si unisce a quella per la grafica, per la comunicazione pubblicitaria e per l’hand lettering, la riproduzione a mano libera di caratteri tipografici, portandolo presto a realizzare i suoi primi calligrammi. La mostra oltre a svilupparsi all’interno dello spazio espositivo, prevede anche un’appendice urbana, un intervento pittorico che l’artista ha realizzato nelle scorse settimane tra le strade del quartiere della Maranella di Roma, a indicare come, nonostante la volontà di confrontarsi con una realtà come quella della galleria, il legame con la cultura della strada sia ancora molto forte.

Qual è stata la tua formazione?
«La mia formazione è legata ai graffiti, infatti nasco come writer. Mi sono avvicinato alla cultura hip hop nella seconda metà degli anni ’90, poi ho capito che la passione per i graffiti era più forte di quella per le altre discipline che compongono l’hip hop (breakdance, rap ecc.). Ancora oggi sono completamente permeato da questa cultura, ascolto musica rap, vivo la strada con tutte le sue implicazioni sociali. Grazie ai graffiti ho cominciato a sviluppare una passione per la grafica – il mio attuale lavoro – e per la comunicazione, e ho capito che la potenza espressiva che avevano le scritte sui muri era pari a quella della comunicazione di massa e della pubblicità. L’altra forte eredità dei graffiti è la mia passione per il lettering, cioè per la realizzazione delle lettere».

In che modo sono cambiati i tuoi riferimenti artistici rispetto a quelli che avevi quando facevi i graffiti?
«A sedici anni sei affascinato da una serie di personaggi, di leggende metropolitane che dipingono i vagoni della metro, treni interi o fanno disegni nelle strade. Andando avanti nel mio percorso di crescita sono poi subentrati calligrafi, pubblicitari e sign painters, cioè coloro che disegnano le insegne pubblicitarie a mano. Qualcuno dei miei modelli però è passato dalla realizzazione dei graffiti a quella delle calligrafie, come Luca Barcellona che, oltre a essere un rapper molto bravo, è uno dei migliori calligrafi italiani. Infatti è stato in grado di sviluppare uno stile peculiare che gli ha permesso di emergere dalla massa».

Come hai vissuto l’evoluzione che portato dalla cultura dei graffiti a quella della street art?
«Premetto che i graffiti devono rimanere per strada, e che è bello e giusto che rimangano nella strada. Il mio primo graffito l’ho fatto nel ’97, mi ricordo che nei primi anni 2000 si sono cominciati a vedere a Roma i primi stencil, realizzati in modo molto veloce dagli stessi writer, era qualcosa di sicuramente diverso. Il passaggio poi è stato velocissimo, si è visto un declino della pratica dei graffiti a favore della street art che ha conquistato tutti i muri di Roma. Fino al 2007 c’erano una serie di iniziative del Comune che avevano lo scopo di dare spazi legali per la produzione di graffiti, adesso tutti questi spazi sono stati soppiantati da disegni, da decorazioni urbane che sono una cosa ancora diversa rispetto al concetto originario di street art. Il passaggio è stato talmente veloce che ho paura che questa pratica della pittura urbana stia già in qualche modo arrivando a saturazione».

Cosa ha significato per te il passaggio dallo spazio della strada a quello della galleria?
«Quello verso la galleria è stato un passaggio strano e forte, un taglio netto con la cultura della strada che però mi ha permesso di andare avanti senza rinnegare la mia provenienza. Ho finito la stagione, bellissima, dei graffiti per iniziare da capo questo nuovo percorso della grafica, della calligrafia e delle tele destinate alla galleria».

Come nasce la mostra Word Play?
«Word Play, che in inglese significa gioco di parole, ha un concept tutto imperniato sulle citazioni di canzoni rap trasposte in calligrammi, la tecnica espressiva che al momento prediligo. In mostra sono esposte diciannove tele su ognuna delle quali c’è scritta una frase presa dalle canzoni di gruppi rap da cui ho tratto ispirazione. Word Play è un tributo alla musica che ho ascoltato per tutta l’adolescenza e che costituisce il mio background culturale. Il secondo nucleo della mostra, quello visivo, è tutto incentrato sulla potenza espressiva del colore; infatti in tutte le tele ho utilizzato i colori da sempre caratteristici della propaganda politica il rosso, il bianco e il nero».

Qual è il tuo processo creativo in rapporto alla tecnica del calligramma?
«Il calligramma è la definizione di una forma creata dal testo, gli inglesi lo chiamano “words into shape”. Per i lavori presenti in questa mostra molto spesso l’idea è arrivata da una frase che mi ha ispirato un disegno, un’immagine che poi ho definito tramite le lettere. Il secondo livello di complessità del calligramma consiste nel trovare dei font tipografici che funzionino bene con quel disegno, il senso in fondo è quello di giocare e di decorare attraverso le lettere».

Fino al 7 agosto; Galleria Varsi, via di San Salvatore in Campo 51, Roma; info: www.galleriavarsi.it

Articoli correlati