Ugo Mulas a Brescia

Brescia

«La mia attività di fotografo è cominciata con la Biennale di Venezia del 1954». È questo il punto di partenza che Ugo Mulas fissa per dare un inizio al suo lungo percorso artistico in ambito fotografico.

Bresciano di nascita ma milanese d’adozione, si accosta al mondo dell’arte quasi per caso, costruendosi una formazione completamente da autodidatta. Oggi, passati da poco quarant’anni dalla sua morte, il museo di Santa Giulia a Brescia gli dedica una grande mostra dove il titolo è già di per sè un omaggio. Richiama, infatti, la sua pubblicazione con Einaudi del 1973, intitolata appunto La fotografia. Curato dallo storico dell’arte Jean-François Chevrier, il percorso espositivo racchiude le tre indagini chiave di Mulas che poi sono i tre sottogruppi con i quali si possono suddividere le sue opere: il reportage sull’arte e sugli artisti, le indagini dirette sul contesto urbano e un’analisi specifica sugli elementi costitutivi della fotografia stessa. Non solo un lavoro fotografico, quindi, ma molto di più.

Anche nelle indagini urbane, l’artista supera la mera registrazione fotografica per mettere in luce qualcos’altro. Per fare un esempio: il famoso Archivio per Milano, realizzato negli anni tra il 1969 e il 1972 dove Mulas decide di fotografare determinati luoghi della città lombarda completamente svuotati dalla gente. «Della città – dice Mulas – vorrei fotografare soprattutto quello che non si conosce; quello che non si vede o non si vuol vedere, o che non si vuol far vedere, anche gli interni pubblici che non conosco, e anche quelli che conosco ma che non ho mai guardato con attenzione. Quello che vorrei è fotografare tutto questo senza la gente; perché quello che ci colpisce di più quando entriamo in un luogo è il fatto che sia frequentato. Invece vorrei che di gente non ce ne fosse, che fosse protagonista una certa struttura portante che chiamiamo città. Case di operai, di impiegati, di professionisti, di ricchi, oppure fabbriche, aziende, mercati, carceri, scuole. Finalmente protagonisti». Un punto di vista altro rispetto a quello che siamo abituati a vedere. Una nuova Milano traspare dalle sue immagini, con un leggero scopo didascalico che affiora in superficie.

La fotografia viene intesa come un processo di apprendimento che c’è poi in tutte le sue opere, in particolare quelle dedicate all’operazione fotografica in sè.  Come in Verifiche, la serie di scatti nata dal «bisogno di chiarire a me stesso il perché di certe affermazioni e di certi rifiuti». Un percorso al contrario, quello di analizzare solo dopo vent’anni di pratica tutto quello che gli altri fanno all’inizio. Andare a fondo per scoprire il senso di operazioni ripetute milioni di volte, senza mai soffermarsi a considerarle per se stesse, andando avanti con un po’ d’incoscienza, forse, ma sempre con l’entusiasmo della prima volta.

L’ultimo tassello della mostra bresciana, e forse anche il più noto al pubblico, è quello riguardante i ritratti. Da Marcel Duchamp a Jeff Koons, da Montale a De Filippo, l’obiettivo fotografico di Mulas ne ha ripreso tanti. Tutti gli amici del bar Jamaica che amavano incontrarsi e parlare di arte e letteratura per le strade milanesi. Gli scatti non sono semplici ritratti: da essi traspare il comportamento e gli atteggiamenti di ognuno di questi personaggi, realizzando un lavoro degno di un critico d’arte. Una tendenza che a un certo punto della sua vita, però, viene interrotta. Mulas percepisce qualcosa di ambiguo nel ritrarre l’artista a lavoro, forse di falso perché frutto di un condizionamento reciproco tra fotografo e artista. «È anche vero che se per tanti anni sono andato in giro a fotografare i pittori, la molla segreta era l’idea e l’attesa che, attraverso la pittura e i pittori, sarei riuscito ad afferrare qualcosa che non era solo la pittura, e giungere a capirmi».

Fino al 13 luglio, museo di Santa Giulia, Brescia. Info: www.bresciamusei.com

 

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