Giovani curatori crescono

Roma

Hanno avuto filo da torcere quest’anno gli studenti del Master in curatore museale e di eventi dell’Istituto europeo di design di Roma, che sono stati selezionati per allestire la mostra IT-Spazi di percezione tra intangibile e tangibile (catalogo a cura di Inside Art edizioni – Guido Talarico Editore). «Un tema  ispirato al pensiero di Adriano Olivetti – afferma la direttrice del master Viviana Gravano – abbiamo in classe a lungo riflettuto con gli studenti sul confine tra questi due concetti che, nonostante possano sembrare antitetici, non lo sono, poiché ogni oggetto è il risultato di un processo intangibile che ha condotto alla sua realizzazione». Nessuno di questi giovanissimi curatori si è quindi lasciato scoraggiare e all’inaugurazione della mostra , inaugurata ieri sera, alla Galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea, erano tutti lì, disponibili e impazienti di spiegare il loro progetto. È interessante osservare i frutti di un lungo lavoro di studio e riflessione, che ha condotto gli studenti a un’approfondita ricerca di selezione degli artisti. «Ci è stato comunicato il tema e subito ci siamo messi a lavoro. Abbiamo riflettuto sulle possibili parole chiave che potessero ben rappresentare l’argomento e ne abbiamo selezionate cinque: Corporeità, Traccia, In-Between, Processo ed Empatia. Ogni artista è stato inserito in uno di questi filoni di lettura» spiega Vasco Forconi, allievo del Master nonché curatore per il lavoro di Michela de Mattei.

Il risultato è quello di una piccola mostra, che possiede una grande forza concettuale, depositata soprattutto nel significato che i curatori le hanno voluto attribuire. Il tutto con l’ausilio di artisti più o meno consacrati che hanno contribuito con le loro opere a chiarire il complesso concetto di base che, come concorda la direttrice del Master, non ha dei confini ben definiti e le opere di ogni artista partono dalle categorizzazioni che i curatori hanno loro affidato, ma al contempo se ne svincolano, per andare a invadere ognuna il campo dell’altra, lasciando spazio a un’interpretazione più soggettiva.

Michela de Mattei, parlando della sua Resistenza pittorica, spiega «volevo realizzare una natura morta, ma non ci riuscivo. Ho abbandonato la pittura e ho iniziato a percorrere altre vie. Volevo creare dei contenitori, che sono allo stesso tempo l’opera e il suo supporto», così ha deciso di modellare delle foglie di fico d’india attorno a una tela e il risultato è un piccolo paesaggio frastagliato, al confine tra scultura e realizzazione pittorica. Più intricato è il processo concettuale di Cecilia Luci che, con Lessico Animico, vuole interpretare le teorizzazioni dello psicoterapeuta Bert Hellinger: «Ho realizzato una fotografia in vasche d’acqua. L’acqua per me è un legame tra passato e presente e l’omino Playmobil che ho inserito è una metafora dell’essere umano e le macchie che lascia sull’acqua sono le proiezioni della sua interiorità».

A dare il suo contributo anche Elisabetta Benassi, nel filone tematico dell’empatia, con due acquerelli, che riportano notizie di cronaca raccolte dall’artista durante ricerche negli archivi giornalistici (in particolare quella dell’attentato a Borsellino e del rapimento di Aldo Moro). Come spiega la curatrice Isadora Medri «mi interessava dare una connotazione politica. In questo l’empatia sta nel fatto che, nonostante si tratti di un fatto ben noto a tutti, l’artista riesce a condurci in una dimensione intangibile di emozioni, trascendendo dalla cronaca». Ancora in mostra gli artisti Roberto de Paolis con una fotografia a lunga esposizione, Silvia Giambrone con due video che interessano le sperimentazioni corporee, Donald Lokuta, che colloca i personaggi delle sue fotografie al bordo di un precipizio, colorando l’orizzonte di un nero corvino.
Francesca Rao, invece, mescola nelle sue serie fotografiche paesaggi reali e paesaggi della mente, mentre Roberto Pugliese crea ambienti multisensoriali in cui il sonoro si aggiunge all’installazione geometrica. Piacevole sorpresa il lavoro di Elena Bellantoni, frutto di mesi di studio e ricerche che l’hanno portata a Capo Horn, dove ha conosciuto Cristina Calderon, una donna dichiarata patrimonio dell’Unesco, in quanto ultima testimonianza vivente dell’antica stirpe Yagan. «Prima di conoscere questa donna – spiega l’artista – mi sono preparata all’incontro, studiando la sua antica lingua, fatta di simboli e immagini che ho riprodotto su carta lucida, creando una sorta di abecedario».

Un esperimento ben riuscito quello di intensificare le relazioni tra giovani curatori e artisti che ha condotto a un piacevole ed eterogeneo risultato.

Fino al 30 marzo
Galleria nazionale di arte moderna
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