Intervista con La Rocca

Vi proponiamo un estratto dal libro di Fulvio Chimento, Arte italiana del terzo millennio, i protagonisti che raccontano la scena artistica in Italia dei primi anni 2000, pubblicato dalla casa editrice Mimesis. Il volume raccoglie una serie d’interviste, 38 per la precisione, a personaggi che ruotano a 360 gradi attorno al mondo dell’arte contemporanea, da direttori di musei fino a direttori di riviste, passando per curatori, critici, docenti universitari e artisti stessi. Il volume viene presentato il 12 marzo al Mar di Ravenna, il 21 marzo al Dams di Bologna, il 2 aprile nella galleria civica Cavour di Padova. L’intervista integrale qui sotto, contenuta nel libro, è con Davide La Rocca. Segue una biografia dell’artista sempre a firma di Chimento.

L’arte del ritratto nasce circa 30.000 anni fa, nel Paleolitico, con l’Homo sapiens. Questo genere pittorico si lega storicamente al carattere magico-rituale del rapporto tra figura reale e rappresentazione. Cosa sopravvive oggi di questo confronto?

«Tutta l’arte prodotta dall’uomo civilizzato è commerciale. Il mercato è entrato a tal punto nella creazione artistica da esserne diventato una componente essenziale e irrinunciabile. Un artista che non ha mercato non esiste. Le pitture murali nelle grotte di Lascaux stavano lì, silenziose nell’oscurità da millenni, prima che qualcuno le scoprisse. Quando ci confrontiamo con gli uomini che dipinsero quelle pareti bisogna tenere presente che stiamo parlando di antropologie diverse. Ma se impugno un pennello non riesco a non pensare a quel gesto così straordinariamente umano, che sopravvive inalterato da migliaia di anni. Un segno tracciato su una superficie, che rievoca misteriosamente lo stesso rito magico e che ci parla di noi».

Molte tue opere sono realizzate a partire da fotogrammi cinematografici. Il mezzo filmico ha saputo creare una mitologia più incisiva rispetto a quella di altre arti?

«Il cinema ha soppiantato buona parte della produzione artistica: dalla seconda metà del Novecento, fino a oggi. Le ragioni di ciò non stanno nella sua maggiore incisività, non lo ritengo, infatti, un medium più efficace di altri. La sua forza sta nella capacità di catturare l’attenzione del pubblico ormai disabituato a guardare immagini statiche. Il cinema è la vera forma d’arte totalizzante, capace di creare sinestesie precluse agli altri medium; lo considero tuttavia una forma d’arte spuria, votata all’intrattenimento anche quando raggiunge le sue vette più alte».

Si può affermare che le strategie comunicative dei media abbiano di fatto condizionato anche il livello della produzione culturale e artistica?

«L’arte da sempre assolve a una funzione destabilizzante degli equilibri interni di un sistema, rompe gli schemi precostituiti per inventare il nuovo, non dà risposte, pone interrogativi, per questo spaventa così tanto le dittature. Da medium del messaggio per eccellenza, la televisione si è trasformata ben presto in medium del “massaggio” rassicurante della mente. Una rassicurazione che plasma il cervello letteralmente a sua immagine e che genera mostri sociali. Il risultato è la cultura di massa, la cultura alle masse. Questo ha ridotto le esigenze e poi le aspettative dei fruitori d’arte, mutatisi nel frattempo in spettatori che hanno abbassato l’asticella della domanda culturale; così, a una richiesta di livello medio corrisponde un’offerta di livello adeguato».

Arturo Schwarz, relativamente alle tue opere, ha scritto che “la superficie pittorica appare frammentata come a seguito della distorsione di un’immagine a bassa definizione visualizzata su un monitor”. Dal punto di vista tecnico, come raggiungi questo risultato?

«Dopo alcuni passaggi di elaborazione dell’immagine ne abbasso la definizione e riduco le sfumature di colore fino a raggiungere un effetto che sia plausibile una volta riportato su tela. Successivamente numero ogni sfumatura di colore ed eseguo una mappatura dell’immagine che mi consentirà, al momento della realizzazione, di individuare i singoli punti o campi da dipingere. Eseguo quindi una stampata della tavola di colore numerata ottenuta e riproduco con i miei colori le stesse tonalità nel modo più fedele possibile. Per le immagini in RGB, più recenti, faccio uso dei soli tre colori primari per ricostruire l’intero spettro cromatico, sfruttando la densità o la luminosità degli impasti. Si potrebbe dire che, se quello che si visualizza su un monitor è frutto delle leggi della fisica, sulla tela mi servo della chimica della visione».

Cos’è il pixel? Una tua definizione…

«È un’unità digitale di base, ma in pittura, almeno nel mio lavoro, lo definisco più semplicemente una pennellata».

In una tua mostra del 2010 dal titolo Ritratti hai esposto la Vocazione di San Matteo, da Caravaggio, un omaggio all’opera del pittore lombardo conservata in San Luigi dei Francesi a Roma. Cosa hai provato la prima volta che sei entrato in quella chiesa?

«Ero molto piccolo, sotto queste due grandi tele (di fronte si trova l’altro splendido capolavoro del Martirio di San Matteo). Ricordo che si introduceva una moneta da 500 lire in un dispositivo che accendeva i riflettori (una logica tutta vaticana, credo ancora in uso) e mi sembrava ci fosse perfetta continuità tra chi riscuote l’obolo e il soggetto del quadro, in cui un ignaro Matteo, non ancora santo, è colto nell’atto di contare delle monete mentre Cristo fa il suo ingresso per chiamarlo a sé. Questo dipinto rappresenta una delle mie prime folgorazioni per la pittura».

La tua Vocazione ha le stesse dimensioni dell’originale ma la scena è rappresentata ribaltata, con Cristo a sinistra. A cosa è dovuta questa scelta?

«Insieme a mia moglie, che è un’insegnante, stavo consultando dei libri di storia dell’arte per scegliere quello da adottare come testo scolastico. Ci imbattemmo in una riproduzione fotografica della Creazione di Adamo negli affreschi della cappella Sistina di Michelangelo; ebbene, il dipinto era riprodotto al contrario, la foto era ribaltata. Ritenni l’errore di una gravità assoluta, ma con il tempo sono arrivato alla conclusione che non è da addebitare alla negligenza di qualcuno. In una società onnivora di immagini come la nostra, infatti, persino la foto di un’opera d’arte su un libro scolastico necessita di essere fruita con la logica del “mordi e fuggi” di un prodotto pubblicitario».

È ancora possibile parlare di “capolavoro” in relazione a un’opera o è diventato difficile rapportarsi all’assoluto attraverso la forma (qualunque essa sia)?

«Spero che si possa parlare ancora di capolavoro e il fatto che se ne vedano sempre meno mi rende ottimista. Tuttavia bisogna intendersi sulla definizione di questo termine. Recenti studi ventilano l’ipotesi secondo cui molti dei geni creativi della storia, non solo nel campo delle arti, siano stati affetti da autismo. Naturalmente c’è ancora molto da indagare sul cervello umano e non è da escludere che un giorno si scopra che chi si dedica con una certa assiduità alla creazione artistica non lo faccia per una particolare predisposizione all’introspezione bensì per fattori genetici».

Forse esiste anche un problema di riconoscibilità? Lo spettatore non possiede adeguati parametri interpretativi?

«Mi sembra che insieme al progresso scientifico che viaggia a velocità sempre più vertiginose, stia cambiando il modo di fruire le opere d’arte, nel senso delle aspettative. Per esempio quando mi trovo in una pinacoteca che ospita dei dipinti antichi, impiego almeno tre volte il tempo che mi serve per osservare con altrettanta attenzione le opere in un museo d’arte contemporanea. Allora mi chiedo: è solo un problema di ricchezza di particolari delle opere antiche o dipende dalla loro maggiore sofisticazione tecnico-esecutiva e dal loro realismo?»

A quali conclusioni sei giunto?

«La mia risposta è che da un’opera contemporanea ci aspettiamo immediatezza, spontaneità, forse leggerezza, anche quando la sua realizzazione ha richiesto lunghi processi di esecuzione; non più contemplazione».

Tre opere che reputi capolavori della contemporaneità in grado di trascendere una dimensione puramente artistica (come nel caso della Pietà di Michelangelo, l’Annunciazione di Cortona di Beato Angelico o Las Meninas di Velàzquez)?

«Al netto di tutti i romanticismi, obiettivamente, dimenticando per un attimo di essere degli addetti ai lavori, mi domando: il più bel quadro di Gerhard Richter o l’opera meno brutta di Damien Hirst possono eguagliare in bellezza e profondità di spirito le tre opere del passato che hai citato? Io dico di no».

A proposito di Gerhard Richter… ti affascina il suo modo di concepire l’arte?

«Richter è uno dei maggiori e indiscussi artisti viventi. Ha praticamente reinventato la pittura, le ha restituito uno scopo, ha liquidato la stantia disputa tra astratto e figurativo, ha tracciato un solco che tutti i pittori a venire, loro malgrado, saranno costretti a percorrere».

La tua pittura per molti aspetti può essere definita “matematica”. Perché secondo te la critica e la storia dell’arte ufficiale tendono a ignorare lo stretto rapporto esistente tra due campi affini come quello dell’arte e della scienza?

«Le scienze, in particolare la matematica, hanno da sempre un forte legame con le arti. Si direbbe che abbiano un obiettivo comune: descrivere il mondo racchiudendolo in una formula che sveli la verità delle cose visibili. Penso alla sezione aurea dei Greci, alla prospettiva rinascimentale, agli studi sull’ottica affinatisi nel Seicento, alle conquiste dell’Illuminismo. Oggi le nostre idee sono ancora attraversate dall’onda lunga del Romanticismo, persiste l’immagine dell’artista come figura a latere, chiusa nel suo atelier a struggersi per il mondo».

Rintracci quindi una diffidenza generalizzata a occuparsi di argomenti scientifici?

«Sì, è diffusa la paura che la scienza possa sostituirsi alla religione, se non a Dio. È in atto un processo oscurantista, spesso supportato anche da chi ci governa, ammantato di un’etica perbenista e filistea tutta rivolta al passato. Lo strascico di questo sentimento così diffuso permea purtroppo anche molti settori dell’intellighenzia. Quanti sono oggi i filosofi che possiedono una certa competenza nel linguaggio matematico? Quanti, fra questi, padroneggiano i postulati della relatività di Einstein? La filosofia viaggia a una velocità minore rispetto al pensiero scientifico».

Davide La Rocca nasce a Catania nel 1970, vive e lavora a Milano. La sua prima personale risale al 2002 presso lo Studio d’arte Cannaviello (Milano), mentre dal 2004 al 2011 quattro sue mostre sono ospitate alla galerie Voss di Düsseldorf; l’ultima, tra queste, ha per titolo Stills. Tra le numerose collettive a cui partecipa, si segnalano la XIV Quadriennale di Roma (2005), Faster!Bigger!Better! al ZKM Museum Fur Neue Kunst di Karlsruhe (2006), Futurismo e Futuro. Nuova Immaginazione alla Galleria Antologia di Monza (2008), 800 VS 900 al Mart di Rovereto (2011) e Face-to-face, presso la Städtische galerie di Gladbeck (2012). Nel 2005 vince il premio dedicato alla memoria dello scultore Agenore Fabbri. A giugno 2014 è prevista una sua monografica presso la galleria Guidi & Schoen di Genova.