Primavera a palazzo Fortuny

«Utilizzato perpetuamente come centro di cultura in rapporto con l’arte» così scrisse nell’atto notarile Mariano Fortuny Madrazo quando decise di donare al comune di Venezia, al momento della sua morte, il palazzo Fortuny, che nel 1956 passo sotto il controllo della Serenissima. Oggi, non una, ma ben cinque mostre sono pronte a rispettare le volontà dell’ultimo proprietario. Infatti con Primavera a palazzo Fortuny, la fondazione musei civici di Venezia, mette in prima linea un’esposizione capace di unire la bellezza senza tempo della location gotica con diverse tendenze artistiche interpretate da sole donne. L’8 marzo, le porte del museo si sono aperte a un evento unico nel suo genere dove il gentil sesso ha la meglio sui colleghi maschili. Le protagoniste? Partiamo con Henriette Theodora Markovitch, meglio nota come Dora Maar, nell’immaginario e nel ricordo di tutti è soprattutto l’amante e la musa del grande Picasso ma con questa personale è lei in prima linea in Dora Maar nonostante Picasso. Donna di eccezionale bellezza e dalla personalità enigmatica aveva sedotto il massimo pittore del secolo, in seguito abbandonata, sprofondò nella pazzia, vivendo isolata dal mondo per oltre cinquant’anni, fino alla sua morte.

Nasce a Parigi nel 1907, da padre croato e madre francese, la famiglia vive per diversi anni a Buenos Aires, dove il padre, architetto, ha importanti lavori. Nel 1927 si iscrive all’accademia di André Lhote, a Parigi, dove incontra e stringe amicizia con Henri Cartier-Bresson. Studia all’École de Photographie de la Ville de Paris, ma è soprattutto Emmanuel Sougez, fotografo, che la forma negli aspetti tecnici. Dora Maar alterna la fotografia sperimentale a quella commerciale passando da ritratti, foto di nudi, pubblicità di moda a fotomontaggi. Gli scatti della strada, la vera essenza della vita, sono di grande interesse per le costanti che le caratterizzano: l’attenzione alle frange marginali della società come scene di miseria e vagabondi, ciechi e storpi o l’osservazione del mondo dell’infanzia e lo studio della vita quotidiana con i mercatini, le fiere, l’eccentrico nei negozio di tatuaggi o nelle vetrine dei maghi. Entra a far parte del gruppo surrealista e stringe amicizia con Paul Eluard e André Breton. Di questo periodo sono le opere 29, rue d’Astorg e Le Simulateur. Sperimenta varie tecniche, tra cui il collage e la sovrastampa. Nel 1935 espone le sue foto alla Mostra surrealista a Tenerife e nel 1936, a Fantastic art, Dada e Surrealismo, New York, alla mostra Objets surréalistes alla galleria Charles Ratton e alla Mostra internazionale del surrealismo a Londra. Nello stesso anno, al caffè Les Deux Magots a Parigi, incontra Picasso.

Il rapporto tra il pittore, già famosissimo, e la fotografa è burrascoso sin dagli inizi. Quando nel 1943 Picasso la lascia, Dora Maar cade in una crisi che supererà solo grazie allo psicoanalista Jacques Lacan e al ritorno alla religione. Muore a Parigi nel 1997. Nella seconda esposizione, Shadows, troviamo i dipinti di Anne-Karin Furunes. L’artista norvegese prende spunto dai ritratti di alcune figure femminili che hanno popolato i saloni di palazzo Pesaro degli Orfei e più volte fotografate da Mariano Fortuny. Attraverso un minuzioso lavoro sull’immagine ridotta in scala di pixel, il soggetto si dissolve in un ordine astratto di punti, divenendo ai nostri occhi una presenza sublimata in un mondo parallelo, dove il tangibile diventa incorporeo, quasi immateriale, dipendente dai movimenti dell’osservatore e dal gioco della luce.

Quest’ultima è protagonista anche della terza mostra, Tras forma, dove viene rielaborata da Ritsue Mishima che si ispira alle forme della natura legata ai riflessi di luce appunto. I suoi vetri nascono dall’unione della tradizione millenaria dell’arte del vetro a Venezia e la cultura giapponese crescendo in un continuo divenire. Sono trasparenti, incolori, la sensazione di purezza e luminosità, riesce a rapire lo sguardo per poi perdersi nello spazio stesso che avvolge le opere. Il quarto salto è con 25 gioielli, 25 spille e 25 racconti, entrando in Memoria aperta, il percorso dedicato a Barbara Paganin. Le opere prendono spunto dalle emozioni del proprio passato esplorato nei ricordi degli altri. Una memoria presa in prestito con ad esempio miniature di ritratti ottocenteschi, animali portafortuna di porcellana, topolini, ippopotami, conigli, elefantini di avorio, una piccola bussola o una regina degli scacci. È la prima volta che l’artista veneziana sceglie di inserire in maniera sistematica elementi estranei nelle proprie opere scovati tra le botteghe antiquarie di Venezia. Infine in Amazzoni della fotografia, ci si occupa di quel settore culturale dove le donne eccellono rispetto all’uomo, proprio la fotografia. La rassegna presenta una significativa antologia di lavori originali, eseguiti da alcune tra le principali fotografe tra l‘800 e il ‘900, come Julia M. Cameron, le austriache Trude Fleischmann e Madame D’Ora, la statunitense Margaret Bourke White, l’ungherese Ghitta Carell, l’inglese Eva Barret, le tedesche Ruth Bernhard e Leni Riefenstahl ma anche Dora Maar e Lisette Model che austriaca ma di origini ebraiche, si trasferì negli Stati Uniti allo scoppio della Seconda guerra mondiale dove aprì una importante scuola di fotografia, e li si formò Diana Arbus, protagonista del XX secolo insieme a Cindy Sherman e Francesca Woodman. Esposti anche lavori di Marina Abramovic e dell’iraniana Shirin Neshat, con le sue foto-denuncia delle ingiustizie della società musulmana come la famosa I am its secret. «La fotografia, oltretutto – come scrive Italo Zannier, curatore della mostra – ha liberato anche dalle difficoltà operative manuali, alcune lungamente considerate maschili, offrendosi innanzitutto come linguaggio astratto, concettuale e poetico».

‏fino al 14 luglio, palazzo Fortuny, San Beneto, Venezia; info: fortuny.visitmuve.it

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