Sognando Hollywood

“Il mito che fonda l’invenzione del cinema è il compimento di quello che domina confusamente tutte le tecniche di riproduzione meccanica della realtà che nacquero nel XIX secolo, dalla fotografia al fonografo. E quello del realismo integrale, di una ricreazione del mondo a sua immagine, un’immagine sulla quale non pesasse l’ipoteca della libertà d’interpretazione dell’artista né l’irreversibilità del tempo. Il fantastico al cinema è consentito solo attraverso il realismo irresistibile dell’immagine fotografica. È questo il miracolo del film scientifico, il suo inesauribile paradosso. E al limite estremo della ricerca interessata, utilitaria, nella proscrizione assoluta delle intenzioni estetiche in quanto tali, che la bellezza cinematografica si sviluppa in sovrappiù come grazia naturale. La gioia estetica nasce dunque da una lacerazione, poiché quei «ricordi» non ci appartengono, realizzando il paradosso di un passato oggettivo estraneo alla nostra coscienza”. Le parole di Andrè Bazin costituiscono l’incipit per poter sondare il progetto espositivo di Alex Israel e Kathryn Andrews, artisti di origine statunitense, ospitati per la prima volta a Roma negli spazi della Gagosian gallery.

Il dialogo serrato tra i due artisti si instaura nella volontà di ricercare nel linguaggio cinematografico una sorta di congiuntura con il sistema arte. È nel readymade, nel vocabolario duchampiano che inizia il percorso di Andrews e Israel, l’oggetto inteso come soggetto, depauperato del suo significato tradizionale, decontestualizzato e partorito sotto una nuova luce. Il percorso stagliato dinnanzi lo spettatore comincia nella visione di un tappeto rosso arrotolato, Red carpet, per l’appunto, accoglie il pubblico in un’atmosfera attonita, il simbolo di Hollywood, dello star system, del successo, della notte degli Oscar, viene usurpato dal suo tradizionale simbolismo, diviene semplicemente un ingombro da travalicare, un oggetto privo di qualsiasi valore figurativo. L’esplorazione di questa particolare estetica cinematografica continua con un’opera di Kathryn Andrews intitolata Die another day dove l’artista in un mobiletto da bagno in acciaio inossidabile ha incastonato un proiettile d’oro utilizzato nell’omonimo film di James Bond. Molte delle opere presentate al pubblico sono state noleggiate negli studios cinematografici poiché veri e propri oggetti di scena. È questo il caso di Liz, ready made realizzato da Israel con un vaso originale proveniente dalla scenografia del famigerato colossal hollywoodiano Cleopatra.

Il colloquio serrato tra Andrews e Israel è spinto oltre i limiti di un incasellamento all’interno del sistema arte, mostrare oggetti a noleggio significa promuovere un tipo di procedimento espressivo che non è più strettamente connesso a uno scopo commerciale, ma si identifica nella volontà di scalzare lo status di artista e di non rendere il pubblico consumatore onnivoro a scopo di lucro, ma fruitore unico di un processo che innesca nuovi modi di leggere un’opera d’arte. L’appropriarsi di un procedimento estetico che è frutto di un evento circostanziale, limitato quindi per alcune opere al tempo di noleggio o di affitto dei reperti cinematografici esposti, disintegra l’immagine stessa di durata, l’essenza di voler lasciare ai posteri testimonianza di un linguaggio espressivo. Questa transitorietà, l’effimero che persiste in un procedimento tecnico fine a se stesso, è il merito più evidente di Andrews e Israel, la consapevole scelta di rivisitare il concetto di artista, di pubblico e di galleria. Il contenuto emerge quindi grazie al contenitore che rende quell’oggetto un’opera degna di essere elevata nel suo status aureo di prodotto culturale. Eliminando le apparenze di un procedimento artistico che vede il suo parallelo nello show business da passerella cinematografica, i due creativi consolidano l’idea di una contraddizione di fondo, elaborano e sovvertono i concetti di paternità, di tempo e di tecnica, percorrendo una strada che li pone come deus ex machina di un fugace presente che destabilizza le canoniche convenzioni che investono il sistema dell’arte.

Fino al 15 marzo, Gagosian gallery, via Francesco Crispi 16, Roma; info: www.gagosian.com

 

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