Mentre in Italia le istituzioni si stanno scervellando per capire a chi spetti vigilare sulle violazioni del copyright, se all’Agcom oppure al ministero degli Interni, a New York nelle ultime ore è successa una cosa sensazionale. I giudici della Grande mela hanno dato ragione a Google sul progetto Google Books. Di che cosa si tratta? Sostanzialmente una mega biblioteca sul web, in cui è possibile sfogliare i testi di più di venti milioni di autori. Chiaramente trattasi di libri che nelle biblioteche sono impolverati su qualche scaffale in attesa di qualche avventato acquirente. Sul motore di ricerca, invece, riacquistano dignità e appetibilità. Tra l’altro con un sistema di ricerca molto più evoluto dell’occhio nudo, facile a perdersi tra i tanti dorsi dei libri in esposizione nelle biblioteche “reali”. Chiaramente gli editori e gli autori attraverso i loro sindacati, non appena dalla Silicon Valley sono partiti con questo progetto, hanno issato le barricate e hanno chiesto risarcimenti su risarcimenti per la violazione del diritto di autore. E, altrettanto chiaramente, Google se n’è infischiata, andando avanti come un panzer con la publicazione delle opere altrui. La sentenza dei togati di New York ha stabilito un precedente dalla potenza rivoluzionaria: «Google non mette a disposizione i libri perché siano letti nella loro interezza – spiegano i giudici – ma solo per renderli disponibili a chi voglia effettuare ricerche». Oltre al presunto danno, poi, la beffa: «Gli editori e gli autori – continua la sentenza – dovrebbero ringraziare Google perché fa pubblicità di questi scritti, promuovendo il progresso delle arti e della scienza». Ecco, negli Usa sono arrivati a questo punto. Che piaccia o no si sta articolando una legislazione che comincia (attenzione, comincia) a mettere ordine nella complicata tematica del diritto d’autore nell’era di internet. La sentenza, che come atto giuridico nel sistema legislativo americano rappresenta un fondamentale precedente normativo, sostanzialmente dà un segnale proiettato verso il futuro: non si può continuare a ragionare sull’utilizzo dei contenuti editoriali allo stesso modo in cui lo facevamo prima che il web entrasse nelle nostre vite e nelle nostre case.
Torniamo in Italia. Entro la fine dell’anno l’Agcom deve mettere all’attenzione del Parlamento il suo regolamento sul diritto d’autore. E ieri, nella giornata del Dialogo sulla libertà d’informazione, la Boldrini, presidente della Camera, ha lanciato un fendente che ha fatto polemica. In sostanza il dibattito si sta articolando su chi debba vigilare sulle violazioni e, soprattutto, su chi debba legiferare in materia. E stamattina il focolaio si è riacceso quando il sottosegretario ai Beni culturali, Simonetta Giordani, alla Camera, rispondendo a un’interpellanza di Migliore e Boccadutri (Sel) ha ribadito: «All’authority e alla Siae spettano i poteri di vigilanza – ha detto – Agcom adotti disposizioni necessarie per rendere effettiva l’osservanza di norme e l’applicazione dei divieti, anche perché l’Italia rimane uno dei paesi a più alto tasso di pirateria». La cosa curiosa è che noi continuiamo a chiamare pirateria quello che da altre parti cominciano a chiamare in modi meno ostili. Il dibattito è aperto e molto presto arriverà anche in Italia ad assumere probabilmente un contorno un po’ meno sbiadito.
Ma la prossima sfida incombe e negli Usa i principali stakeholder si stanno già confrontando: la vendita di libri usati sul web attraverso piattaforme come Amazon, Google ed Apple. La vendita presuppone interessi commerciali. La sfida è avvincente, ma anche molto pericolosa.