La Turandot di Puccini

Roma

La stagione dell’teatro dell’Opera di Roma si chiude sulle note di Turandot di Giacomo Puccini, nel rispetto della versione originale della sua prima rappresentazione al teatro alla Scala il 25 Aprile del 1926, così come il maestro la lasciò incompiuta poco prima di morire, bloccato da un male incurabile e dai mille dubbi sul finale. L’allestimento proposto è quello andato in scena in occasione della riapertura, nel 2009, del Petruzzelli di Bari, la regia è firmata da Roberto De Simone e la direzione d’orchestra è in mano a Pinchas Steinberg, il lodevole coro del teatro dell’Opera è guidato da Roberto Gabbiani.

L’arduo compito di terminare l’ultima opera pucciniana fu assunto da Franco Alfano, e tutti ricordano quando Arturo Toscanini, nel corso della prima esecuzione assoluta del ’26, fermò la sua bacchetta nell’esatto punto in cui Puccini pose la sua ultima nota autografa, con la memorabile frase “Qui finisce l’opera, perché a questo punto il maestro è morto”. Gli scenari della vicenda presentano una Cina arcaica e misteriosa, espressa da una vena musicale che attinge a piene mani alla musica pentatonica dell’Estremo Oriente. Il soggetto è ispirato all’omonima fiaba teatrale di Carlo Gozzi: la principessa Turandot fa strage di tutti i suoi pretendenti, cercando di perseguire l’ideale della purezza, in memoria di una sua nobile ava, stuprata e uccisa da uno straniero, con l’imperativo morale di vendicarla. La principessa, che nel primo atto è solo evocata e fa la sua sortita con pochissimi versi, è solita sottoporre ai suoi corteggiatori tre ambigui enigmi, la cui mancata soluzione comporterà ai malcapitati la morte per opera di un boia. Il giovane Calaf, un principe ignoto, arriva a Pechino ed è subito impressionato dalla bellezza della gelida principessa, a tal punto che decide di tentare la prova dei tre indovinelli, nonostante il padre Timur, re tartaro spodestato e appena ritrovato, e Liù, devotissima schiava, tentino di dissuaderlo. Il Principe è irremovibile e si lancia verso il grande gong, lo percuote e dà inizio a un vero e proprio rito iniziatico. «Le scene dell’opera di Nicola Rubertelli mirano a creare una sacra rappresentazione – dice il regista dell’originario allestimento del Petruzzelli, Mariano Bauduin – dove tutto è estremamente ritualizzato e simbolico, perché quella di Turandot è una dinastia dove l’imperatore è divinità. L’elemento portante è la pietra: più calda, nei colori della terracotta, per il Coro, più fredda nel marmo di cui è vestita la gelida Turandot. Effetti che nei costumi si sono raggiunti attraverso una pelle trattata in modo particolare, per dare il senso di pietra scolpita. Insomma, gelo e fuoco, che sono gli opposti dei due protagonisti».

Calaf, alla fine della sua prova, riuscirà a scoprire le soluzioni degli enigmi, ma Turandot è ancora restìa a concedersi e il principe, che cerca una donna che lo ami davvero, la solleva dal vincolo del giuramento, proponendole a sua volta una nuova sfida: lui è pronto a morire se lei riuscirà prima dell’alba a indovinare il suo nome. È il momento della celeberrima aria Nessun dorma: tutta la notte gli abitanti del regno dovranno cercare di suggerire il nome del principe a Turandot. L’alba arriva, con tutto il suo significato cosmogonico, e l’unica in grado di svelare l’identità di Calaf è la fedele schiava Liù, che piuttosto preferisce morire torturata, ma non pronuncerà il nome del suo principe. Su questa drammatica scena, presaga di disgrazie per il popolo di Pechino, si chiude la Turandot firmata Puccini. Il musicista a lungo si arrovellò per formulare il duetto d’amore finale, che avrebbe visto il freddo cuore di Turandot sciogliersi nel sentimento per Calaf, ma il destino gli è venuto incontro: l’opera pucciniana non tollera infatti il lieto fine e la morte di Liù farà anzitempo calare il sipario con una melodia intrisa di struggente dolore.

Lo spettacolo replica fino a giovedì 31 Ottobre.

 

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