Guerrieri della bellezza

Jan Fabre a un certo punto, precisamente nel 1984 ad Anversa, ha messo in scena This is theatre, uno spettacolo che durava otto ore. Dal tramonto all’alba, lo spettatore che solitamente in quello spazio temporale dormiva, si ritrovava seduto su una poltrona a guardare la performance. Le ore che di norma si lasciano ai sogni però non venivano cancellate ma spostate in teatro su quella comoda seduta probabilmente rossa. Fabre è un artista e regista fiammingo che chiama i suoi attori guerrieri della bellezza, una coerenza sbalorditiva dato l’impegno richiestogli. Giulia Perelli è una guerriera della bellezza. L’attrice toscana, classe 1985, fa parte della compagnia del fiammingo che da più di un anno ripropone gli spettacoli che l’hanno reso celebre. Il 16 e il 17 ottobre, uno di questi, The power of theatrical madness, arriva nella capitale per il Romaeuropa festival.

Privilegio (cronologico) di pochi aver partecipato alle performance di Fabre, i più avranno visto qualche video su youtube, noi abbiamo intervistato uno dei 14 guerreiri della bellezza, l’unica attrice italiana della compagnia: Giulia Perelli

Quanto è stato difficile entrare nella compagnia di Jan Fabre?

Ci sono state varie fasi di audizioni, in diverse città europee. Vi hanno partecipato tantissimi attori, danzatori e performer. L’ultima fase, durata due settimane, si è tenuta ad Anversa, nel teatro di Fabre.

Lui era lì?

Sì, è sempre stato presente e lo è tutt’ora, durante la tournée. Segue il lavoro e ci confrontiamo continuamente.

Cosa vi ha chiesto di fare nella fase di selezione?

Vari training per valutare la qualità del movimento fisico, le persone che aveva davanti, il personale mondo interiore, l’autenticità, la fantasia, la necessità vitale, la capacità di lasciarsi andare.

Questo lasciarti andare è un po’ una costante del teatro performance.

Sì, ma anche nel cinema. Essere presenti e vivere una situazione emotiva, fisica, fino in fondo e saperla trasmettere.

Ci sono anche state tre lettere di motivazione per entrare.

Sì, è stato importante anche per me stessa scriverle, per una coscienza personale. Ci deve essere una motivazione forte per fare questo lavoro, perché pretende molto, sconquassa, è una ricerca verso “un regno sconosciuto”.

Non dev’essere stato facile.

Non proprio facile, bisogna avere un grande desiderio, una necessità, un grande amore. Siamo sempre esposti in situazioni estreme per arrivare ai nostri limiti fisici e mentali. E scoprire cosa c’è oltre. Arrivare all’essenza umana. Più vicini possibile allo spirito, se così posso chiamarlo.

Fabre nonostante sia molto fisico, si basa anche sul pensiero.

Dice spesso che il cervello è la parte più sexy del corpo. Il pensiero è un movimento creativo e quindi artistico. Si può essere artisti anche per la capacità di pensare, di immaginare, non solo per la capacità tecnica. E la scoperta del corpo, la sua sensibilità, le sue reazioni, amplificano e permettono questa esperienza immaginativa e conoscitiva. Il lavoro dell’attore è fortemente legato al corpo e ai sensi.

Fabre si riallaccia molto a quest’idea primitiva di esperienze sensoriali quasi violente.

Sì. Come molti riti arcaici. Esperienza e rappresentazione. A certe soglie, quando si sa che per limite umano non si può andare oltre ma si cerca comunque, la disperazione della nostra impotenza riassume in un’ ora quel che c’è di inrappresentabile della vita, ma che è profondamente vita. O crudeltà, per dirla con Artaud. Ci chiediamo se il teatro sia rappresentazione della realtà, gioco o la realtà stessa. Credo che l’importante sia la ricerca, questo stimolo vitale dell’essere umano, che ha continuo bisogno di carburante, che sia gioia o rabbia, vitalità insomma, una necessaria nudità (intesa in senso metaforico) e la fantasia. Tutto entra nel processo creativo, che trova la sua estasi nel credere, il suo apice nella creazione. Può essere una ricerca profonda il teatro, la scoperta di cosa c’è dietro ai protocolli sociali, al di là di ciò che noi chiamiamo realtà.

L’idea che il corpo intrappoli l’anima è prima platonica e poi cristiana.

Sì, ma ho la sensazione che noi mediterranei abbiamo un rapporto diverso col corpo. Una cultura che lo manifesta. Si vede anche dalla nostra arte, Michelangelo ha una fisicità così materica, rappresenta il nostro senso estetico ed etico. Siamo ancora molto pagani, dentro. Il Belgio, i fiamminghi, hanno una cultura diversa che è riflessa nel surrealismo, nella pittura fiamminga, una diversa immaginazione.

Ma torniamo al teatro, cosa provi a chiedere l’attenzione del pubblico per otto ore?

Ma quando ricapita di non consumare il tempo, di far parte di un rito condiviso con altri? E’ una bella esperienza. Era nato per cominciare a mezzanotte e finire alle 8 del mattino. Nelle ore notturne, dedicate al sonno e al sogno. A Roma iniziamo alle 16, al teatro Eliseo, domenica 20 ottobre.

Ma voi invece come fate per otto ore?

Momento per momento.

Ma quanta libertà vi lascia Fabre all’interno dello spettacolo?

Abbiamo una simmetria da rispettare e l’ascolto degli altri per poter essere un corpo unico, spesso, sincronici. L’identità personale esce in ogni caso, ognuno dà input, ma creiamo insieme. Siamo una compagnia molto unita. Gli altri sono meravigliosi.

Lo spettacolo è come era o è stato aggiornato?

Non ci sono stati grandi cambiamenti.

Coraggioso Fabre nel riproporre uno spettacolo di trent’anni fa senza cambiare una virgola.

E’ un tipo coraggioso.

Hai mai pensato di vederlo invece di recitarlo ogni volta?

Vorrebbe dire che mi ha licenziato, non vorrei mai!

Giulia Perelli indossa abiti G-STAR