Micaela Lattanzio a Metropoliz

Definire un luogo meticcio significa esplorare in profondità il confine labile che delimita un’invarcabile soglia di pregiudizi, preconcetti e opinioni relegate in schemi dalle variabili mai scontate. Metropoliz è uno spazio dell’altrove, un museo che mano a mano sta germinando e che costituisce un unicum nell’orizzonte contemporaneo, l’ex fabbrica Fiorucci situata sulla prenestina, racchiude in sé un sistema fluido, dove artisti, abitanti dello spazio occupato e visitatori rappresentano il sistema genetico di un luogo particolare in cui si innesca un continuo scambio di vita. L’arte entra in questo spettro esistenziale prendendo coscienza della fragilità di un sistema che si nutre giorno dopo giorno nella consapevolezza del suo essere effimero e transitorio.

Il prossimo 5 ottobre, giornata nazionale dedicata al contemporaneo indetta da Amaci, Metropoliz apre le sue porte al pubblico e diviene uno luogo dedito a promuovere diverse espressioni creative, più di quaranta artisti mostrerano i loro lavori radunati sotto la curatela di Giorgio de Finis, ideatore e padre putativo di questa impresa ambiziosa. District 913, ricalcando la filmografia di fantascienza, è il titolo del progetto che vuole raccontare la fluidità transitoria di uno spazio che nulla ha a che vedere con realtà dai canoni istituzionali, il Maam, acronimo del museo dell’altro e dell’altrove, scardina ogni concetto relativo al sistema arte, si impadronisce di un ambiente surreale dove ogni elemento confluisce in un’osmosi contemporanea.

Micaela Lattanzio, una delle artiste coinvolte da Giorgio de Finis, inaugura la sua installazione intitolata Where have the flowers gone e la sua mostra personale dal nome Dimensioni parallele e vie di fuga. Micaela costruisce nelle sue opere, partendo da un’indagine fotografica, scritture di paesaggio, edifica architetture che innescano prospettive ardimentose, generando multiformi sistemi compositivi. Nell’installazione site specific creata per la nuova stanza del Metropoliz, l’artista ha ideato un’esplosione di fiori raccolti in vortici dalle suggestive spirali. Lo spettatore viene proiettato in un luogo dalla minuziosa fragilità, frutto di un lavoro meticoloso in cui viene rivelata l’essenza di inedite realtà.

Un’intervista all’artista per capire meglio il suo lavoro.

Space metropoliz riproduce un sistema fluido dove si stabiliscono inedite connessione tra gli abitanti dell’ex fabbrica occupata e gli artisti del Maam, un luogo fuori da ogni schema dedito a raccontare aspetti inediti e forse mai sondati. Com’è avvenuta la genesi del tuo intervento site specific in un contesto di questo genere?

«Avevo un’immagine in mente, immaginavo una sorta di matrioska dove poter trovare sempre qualcosa di nuovo all’interno. La radice dell’installazione e la sua base filosofica risiede nel sondare il codice genetico dell’opera stessa, il mio lavoro si fonda sulla ripetizione del multiplo, su di un sistema molecolare dove propongo la visualizzazione di cellule che sono parte integrante di un insieme. Ho pensato a Metropoliz come un contenitore ideale di dna, un luogo che fa da cornice all’installazione, un’esplosione contenuta perché la stanza è uno spazio chiuso, una sorta di giardino segreto da scovare. Il gioco risiede nel catturare lo stupore, cercare delle vie di fuga suggerite dalla disposizione dei fiori sulle pareti».

Con la progettazione della tua mostra personale, che inaugura la galleria Weekend only contemporary del Maam, presenti al pubblico un’altra matrice stilistica del tuo lavoro che esplora inedite scritture di paesaggio. Quali sono le tematiche fondanti delle tue opere?

«Le mie opere suggeriscono visioni, nuove prospettive, vi è un aspetto fondamentale che è quello della ripetizione del cerchio che innesca lo sviluppo di vortici aprendo allo spettatore differenti suggestioni. Esiste una critica velata nei miei lavori laddove rappresento il paesaggio sotto la forte spinta dell’urbanizzazione umana in cui le architetture offuscano e oscurano il cielo, a volte l’uomo dimentica di far parte di un sistema complesso, egli prende ispirazione dalla natura, è parte integrante di questa e deve ricordare la genesi del suo essere, tralasciando la presunzione di sentirsi il deus ex machina di questo universo. La mia ricerca, però, è in prima istanza estetica, la volontà è quella di creare delle visioni introspettive che possano far scaturire nello spettatore un germe di spiritualità. L’arte è nata per scrivere le proprie origini, per avvicinare l’uomo a qualcosa di più grande. La mia cifra stilistica si muove su scenari surreali ma che riflettono consapevolmente l’essenza tangibile della natura».

La dimensione tecnica del tuo lavoro è un aspetto affascinante che in qualche maniera deve essere approfondito, la genesi di una tua opera parte da un’indagine fotografica per infine giungere all’assemblaggio delle immagini, qual sono stati i passaggi che hanno permesso la realizzazione del tuo intervento site specific?

«L’installazione è frutto di un lavoro certosino, l’opera è stata interamente ritagliata a mano. Ho creato un archivio fotografico di fiori che ho successivamente lavorato al computer, c’è una manualità molto forte in questo progetto composto da quasi cinquemila fiori che sono stati ritagliati in tre mesi di lavoro. Il percorso di questo intervento è stato complesso, ho instaurato durante le fasi di realizzazione rapporti interpersonali con gli abitanti di Metropoliz, posso definire l’installazione un’opera condivisa che ha generato un grande senso di comunione poiché il Maam è innanzitutto un logo di vita dove l’interazione umana è alla base del processo creativo e ne è parte integrante. La forza di Metropoliz risiede in questo continuo scambio dove l’artista vive la sua esperienza in maniera totalizzante, in una continua immersione sociale che a volte prescinde dall’opera in sé. Where have the flowers gone è stata il frutto di un procedimento molto lento, nelle fasi del ritaglio questo percorso, che definirei anche faticoso, ha scaturito nuovi scenari, un ritorno verso quella componente artigianale che fa parte di questo mestiere».

L’installazione è nata da un percorso vitale complesso, parlando invece dei tuoi quadri qual è il processo che si innesca per la loro creazione?

«Col passare degli anni ho realizzato un cospicuo archivio fotografico frutto dei miei viaggi, del mio piacere di scattare immagini. Nel mio lavoro c’è una profonda ricerca della forma che immagino come fossero tasselli da ricomporre in fase di progettazione, le architetture che compongo sono porzioni di figure più complesse che in alcuni casi ridisegno personalmente al computer. La tridimensionalità delle opere è un elemento imprescindibile, l’aspetto portante del mio linguaggio in cui la composizione di un sistema va al di là della bidimensionalità di un quadro. In passato ho lavorato con materiali eterogenei ma la mia ricerca stilistica è sempre ruotata attorno alla volontà di costruire una spazialità che andasse oltre la dimensione della cornice, le mie opere sono in ultima analisi sculture da appendere alla parete».

In questa contemporaneità che vede il sorgere di un nuovo umanesimo dedito all’individualismo spinto, alla ricerca assoluta di un appagamento irraggiungibile, qual è secondo la tua opinione il ruolo dell’arte e dell’artista nella nostra società?

«In primo luogo credo che nella mia concezione creativa non ci sia differenza tra la vita e quello che esprimo con l’arte. Il mestiere dell’arte è composto da solitudine, un artista credo si debba mettere a nudo per far arrivare alle persone il proprio punto di vista. Tutto il mio percorso è legato alla spiritualità perché il fine ultimo del mio lavoro è cercare di suscitare qualcosa in chi osserva le mie opere. Il sentiero è quello di conoscere se stessi, mettersi in discussione, rincorriamo troppo spesso la vita con il risultato di creare conflitti latenti. L’artista ha una funzione sociale, ha il compito di aprire gli occhi. Ho preso molto a cuore il progetto di Metropoliz perché credo sia un luogo dove poter costruire un nuovo linguaggio etico ed estetico. L’egoismo è la nuova religione della contemporaneità, un elemento difficile da sradicare ma bisogna capire che l’uomo ha bisogno di ritrovare una solidarietà collettiva che possa scaturire nuove dimensioni. Ho in mente il verso di una canzone che dice “Per avere tutto il mondo fra le mani ci si è trovata anche la morte”, questo perenne fabbisogno di vivere in funzione di un’idea che non esiste è il primo passo per tornare a prendere consapevolezza di noi stessi, per ricondurre l’uomo verso l’origine della sua natura».

5 e 6 ottobre; Maam museo dell’altro e dell’altrove Metropoliz, via Prenestina 913; info: www.spacemetropoliz.com