La cultura è finita

Ci sono personalità, in campo culturale o d’altrove, che godono di un prestigio universalmente riconosciuto. Coperti da una patina di credito e buonsenso, sono in grado di spacciare le loro amenità per verità urbi et orbi. Uno di questi messeri, a casa nostra, era la buonanima di Montanelli. Mai l’ombra d’un pensiero men che ovvio, nel segno d’un qualunquismo che al confronto impallidiva il monocolo del buon Giannini. Mai la capacità d’andare al fondo del problema, di cogliere il nocciolo, la polpa della questione sotto la buccia della pacatezza espositiva. Mai, soprattutto, una crepa nel muro del conservatorismo, dai peana ai civilizzatori fascisti d’Etiopia e d’Albania agli ultimi giorni, all’insegna di un percorso di lineare destrosità, a discapito delle apparenze che ne hanno fatto in tarda età un campione di liberismo. O, come amava definirsi parafrasando altri italici campioni, un anarchico d’ordine.

Uno di questi galantuomini – mutatis mutandis – è Mario Vargas Llosa. Lo scrittore peruviano che da anni ha eletto Londra suo domicilio abituale è, indubitabilmente, persona di grande rigore intellettuale e l’ultimo suo saggio, La civiltà dello spettacolo (Einaudi, 184 pagine, 17 euro), ne è un palmare esempio. L’opera, abbastanza light da prestarsi a una lettura estiva, affronta nondimeno uno dei temi caldi del nostro tempo, interrogandosi sulla fine della cultura, ormai data per acquisita, e dunque della civiltà occidentale che l’ha partorita. Facendo il verso alla società dello spettacolo di debordiana memoria, il nobel per la letteratura 2010 affronta la questione sotto varie sfaccettature, con escursioni nel campo della religione e dell’eros, della politica e dell’arte. Sei capitoli, preceduti dagli scritti in tema pubblicati nella rubrica Pedra de tocque sul Pais, datati ma ancora validi.

Tema portante, sul quale vari commentatori nostrani si sono sbizzarriti puntando l’indice dalle parti di Genova, è che nella civiltà occidentale il comico è sovrano, Grillo non se ne dolga. Nell’era dello spettacolo, lo spirito guida non può che essere quel quarto d’ora di celebrità che Warhol pronosticava a tutti e facebook, o altre vie internettiane all’uscita dal cono d’ombra, garantiscono urbi et orbi. La pubblicità, madre d’ogni accesso al mondo delle immagini – vale a dire al mondo tout court, nell’era presente – e guida d’ogni azione, veicola pensieri, parole e azioni verso la frivolezza, il passatempo e il disimpegno che permeano di sé ogni afflato culturale, dal cinema alla letteratura. Con la conseguente morte, o mero disinteresse, per ogni cosa costringa a tenere il cervello acceso per più di una manciata di minuti. È una involuzione culturale che permea il mondo, dando vita appunto alla civiltà dello spettacolo alla quale niente e nessuno, in ogni angolo del globo, appare in grado di sottrarsi e che ha portato dritti alla fine della cultura vista come impegno e spirito critico. E dunque di questa e della civiltà per come l’abbiamo conosciute finora.

È una condanna senza appello, dunque, un fine corsa senza ritorno quella che Vargas Llosa pronostica dall’alto della sua lungimiranza. Un mondo permeato di cultura light dove guitti e buffoni macerano trovate per una massa sempre più incolta e docile ai meccanismi del consumo futile e della politica imbelle. Difficile dargli torto. L’oggi è questo, e lo scrittore lo fotografa nella sua cruda realtà, con toni apocalitici. Cosa rimproverare dunque al Nobel che non disdegna sedere ai tavoli della Trilaterale, l’organizzazione nota ai meno che ha saputo regalarci – tanto per fare due esempi recenti – un paio di presidenti del Consiglio del calibro di Monti e Letta? Forse di non trovare vie di scampo al flagello dell’insulso che ci trascina a fondo? Ma non è compito degli intellettuali darne: i grilli parlanti blaterano finché una martellata non li spiaccica al muro, Pinocchio docet. Di vedere tutto nero, il bicchiere neanche mezzo vuoto? Mica è colpa sua se manco c’è più, il bicchiere, frantumato in mille pezzi.

No, i limiti della visione di Vargas, aderente alla realtà e arguta come sa essere uno scrittore di vaglia, sono altri. Neanche quello di mettere nello stesso sacco dei nemici della democrazia cose assai diverse. Democrazia che, va da sé, essendo il migliore dei mondi possibili, o perlomeno il meno peggio, va difesa contro ogni attacco, che a portarlo siano indossatrici di burka o Assange, e ovviamente esportata all’estero, nel sempiterno nome della libertà e dei diritti. E se poi qualche talebano reticente s’infiltra pazienza, le primavere d’Arabia e d’altrove sono sempre meglio dei satrapi che rovesciano. No, i limiti sono altri, e per un Nobel della parola assi più pesanti. C’è la sensazione, dietro l’apodittica certificazione della realtà, che termini come libertà e democrazia siano concetti buoni solo a garantire il trantran della buona gente che mai deve scapocchiare fuori dal circuito consuma & crepa (il primo termine del tris, produci, non essendo più in voga in Occidente). Che la cultura, intesa come alta & altra rispetto a quella della gente, e le elite che di questa si sono pasciute e hanno reiterato, non abbiamo fatto meno danni degli effetti collaterali sui civili nelle guerre spacciate per umanitarie. Chimere da intellettuale ultrasettuagenario affetto da miopia cognitiva che vede benissimo il guasto del mondo in cui è immerso e cassandra sul domani, ché per il dopodomani ci sono le stesse certezze del cataclisma che sprofondò Atlantide nell’oceano che ancora porta il suo nome, alla fine dell’ultima glaciazione. Di certo c’è solo che il mondo è una palla e tutto gira. Compresa l’idea che la cultura, i buoni libri e gli ottimi film, possano davvero cambiarlo, renderci persino migliori. E l’arte? Bè, leggetevi il paragrafetto sotto, diamine (pp.35-36).

«Le arti figurative, dal canto loro, hanno anticipato tutte le altre espressioni della vita culturale nel gettare le basi della cultura dello spettacolo, stabilendo che l’arte poteva essere gioco e farsa e nient’altro. Da quando Marcel Duchamp, che senza dubbio era un genio, ha rivoluzionato i modelli artistici dell’Occidente stabilendo che un gabinetto poteva essere un’opera d’arte, se lo avesse deciso l’artista, è diventato tutto possibile nell’ambito della pittura e della scultura, persino che un magnate paghi dodici milioni e mezzo per uno squalo conservato in formaldeide dentro un recipiente di vetro e che l’autore della trovata, Damien Hirst, sia oggi ossequiato non come lo straordinario venditore di fumo che è, ma come un grande artista del nostro tempo. Magari lo è, ma questo non getta una luce positiva su di lui, bensì molto negativa sul nostro tempo. Un tempo in cui lo sproposito e la bravata, il gesto provocatorio e privo di senso, bastano a volte, con la complicità delle mafie che controllano il mercato dell’arte e i critici conniventi o gonzi, a coronare falsi prestigi, conferendo lo statuto di artista a illusionisti che nascondono la loro pochezza e il proprio vuoto dietro i raggiri e la presunta sfrontatezza. Dico “presunta” perché il gabinetto di Duchamp aveva per lo meno il merito della provocazione. Ai nostri giorni, ciò che ci si aspetta dagli artisti non è il talento, né l’abilità, ma la posa e lo scandalo, la loro audacia non è altro che la maschera di un nuovo conformismo. Ciò che prima era rivoluzionario è diventato moda, passatempo, gioco. un acido sottile che snatura la creazione artistica e la trasforma in rappresentazione grandguignolesca. Nelle arti figurative la frivolezza è arrivata a estremi allarmanti. La sparizione di un consenso minimo sui valori estetici fa sì che in questo ambito la confusione regni e sia destinata a regnare per molto tempo, perché non è più possibile discernere con una certa obiettività che cosa sia l’avere talento o l’esserne privi, che cosa sia bello e che cosa brutto, quale opera rappresenti una novità duratura e quale non sia altro che un fuoco fatuo. Tale confusione ha trasformato il mondo delle arti figurative in un carnevale nel quale i veri creatori si mescolano con gli opportunisti e gli imbroglioni, spesso difficili da distinguere. Inquietante anticipo dell’abisso in cui può sprofondare una cultura malata di edonismo a buon mercato che sacrifica ogni altra motivazione e disegno al divertire».

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