Sia fatta la tua volontà

Dei morti non può dirsi che bene, recita un vecchio luogo comune. Stefano Baldi non fa eccezione. Scomparso per un tumore nel 2009, a 34 anni, lascia una moglie e un figlio di pochi anni, Nicolò, e questo romanzo, molto autobiografico. Il primo e l’ultimo, terminato pochi giorni prima di morire. Non è facile recensire qualcuno che non c’è più. Non lo è, soprattutto, se prima di prendere in mano il libro non si sapeva nulla della sua storia. Solo, si era letto qualcosa, e quel qualcosa pareva promettere bene, faceva voglia di saperne di più. Al punto da chiedere all’editore un contatto con l’autore, per sentirsi dire che non era proprio possibile, e non certo per volontà sua. Che dire di Stefano Baldi, dunque, di Sia fatta la tua volontà (edito da Pendragon nell’anno della morte e ora riedito da Newton Compton, 382 pagine, 9,90 euro)? Del libro di un autore su cui hanno detto la loro, tanto per fare due nomi, Pupi Avati e Marco Lodoli? Mica facile recensire un morto, uno che si sarebbe voluto conoscere e non è più. Mica facile sfuggire ai retropensieri del buonismo e ai trabocchetti del marketing postumo. Epperò, proviamoci.

La storia. Luca Lazzarini, detto Lazzaro, vive nella Bassa Padana, presso Bologna, una vita comune a quella di molti coetanei. Da poco trasferitosi nell’appartamento che era del nonno, morto di cancro come il padre, tenta di lasciarsi alle spalle una madre premurosa e devota e un fratello poco più che scemo, patito per la Ducati. Un lavoro onesto e di poche pretese, amici qualcuno e malfido, con cui passare il fine settimana immergendosi nel nulla, donne manco a parlarne. E questo è un bel guaio per Luca, che vivacchia una vita incolore sognando l’amore possibile con una catasta di dubbi e complessi che la metà bastano. In questa vita dall’orizzonte corto arriva un evento che taglia i ponti con ogni futuro possibile. Dalla scoperta del male alla riscoperta della fede, passando per la salvazione d’una giovane e bellissima prostituta dell’Est, fino all’accettazione del proprio (non) vissuto e della volontà dell’Altissimo, il racconto si snocciola in pagine – qualcuna di troppo – dense di malinconica ironia e, non di rado, di buona letteratura (vedi il brano sotto).

Lo stile. Più che buono, dicevamo, nonostante alcune pecche. Tipo il manieriesmo compiaciuto di certe frasi: “Affermare che Lazzaro si sentisse distrutto sarebbe stato come stappare una bottiglia di eufemismo della migliore annata”; “era perfettamente inutile farsi illusioni: come se il pollo arrosto cercasse riparo dal fuoco nascondendosi dietro le patate”. Personaggi stilizzati e privi di sfaccettature (la puttana redenta, il prete salvifico, l’amico stronzo eccetera), veritieri quanto le madonnelle sotto la neve nelle bocce di vetro. E, quel che è peggio, il pietismo delle situazioni in cui si attorciglia la storia, il sapore d’incenso e sacrestia col quale si chiude la vita narrata di Lazzaro. Certo, Dio o chi per lui è un grand’aiuto quando si devono fare i conti col proprio vissuto e chiuderlo di fretta, con un frego e via, quando molto restava da vivere (scrivere). E forse il modo più semplice, il più diretto, è accettare che l’uscita di scena sia decisa da qualcuno, lassù, barbone bianco e altri ammennicoli poco importa, magari a promessa d’una vita meno indegna e d’eterna felicità, a suggello d’una vita ch’è un soffio, un passaggio spesso opaco, un rotolare di sbieco verso la luce, dal nulla. E accettare, così, la volontà di chi, da qualche altrove, tira i fili d’imperscrutabili destini, comunque votati a un disegno finale, al bene. Accettandone i voleri non come capricci, ma dure necessità. Perché rispondenti a un disegno superiore: divino, appunto. Sarà. Quanto più difficile pensare che nella viva gora in cui sguazziamo fin dal concepimento non c’è senso, nessuno che tenga la corda, oltre un cordone da mozzare prima o poi. Prima e poi.

Ma queste sono divagazioni, scommesse d’una letteratura d’altro segno, con minori certezze, persino, delle poche toccate in sorte a Luca. A lui è bastato tornare a casa, accorgersi che la gioia di vivere poteva anche darsi nel non voltarsi innanzi una madre incolore e un fratello diverso. E il suo percorso vitale compiersi in una missione salvifica, e poco altro. A noi basta il suo libro, col rimpianto di quel che avrebbe potuto scrivere (vivere) ancora. Un bel libro, dunque, anche se non necessariamente da tenere sul comodino dopo la lettura, come recita la fascetta in copertina, a mò d’esempio di vita e abnegazione al fato. Ma questi sono trucchetti da marketing postumo, appunto, lasciamoli al loro destino come le orripilanti copertine dell’editore che – però – fanno tanto cultura light & pop e dunque avvicinano – chissà – la gente a qualcosa di sempre più desueto come la lettura. Lasciamo perdere pure che il libro di Baldi inauguri una nuova collana detta 3.0, oltre il genere, a voler narrare solo storie “vere e intense”. Come se un buona lettura potesse esimersi dal farlo, demandando ai cruciverba e ai ricettari il solo rapporto possibile con la parola scritta. Resta il suo libro: bello e vitale, nonostante tutto.

Info: http://www.stefanobaldi.net

Il brano. Semirette illuse e segmenti consapevoli. Il guaio è che le persone, fin dalla nascita, vivono con una strana illusione nel cervello. Quella di essere semirette. Un punto d’inizio, la nascita, e una direzione: l’infinito. Le persone vanno a scuola. Rinunciano al loro tempo libero, ai giochi, alle amicizie, agli anni divertenti e spensierati della vita. Per imparare tante cose che serviranno loro più in là. Da grandi, nel futuro. Le persone risparmiano. Non spendono tutto il loro denaro, lo investono, si creano delle pensioni integrative, fanno piani di accumulo: in pratica si tosano sempre a zero fin da piccole per il rischio di rimanere un giorno calve. Contraggono mutui trentennali perché tanto fra trent’anni ci saranno ancora, anche solo per festeggiare l’estinzione della sanguisuga. E non si comprano la macchina preferita, perché se poi capita una spesa imprevista… E non mangiano al ristorante, perché poi si prendono delle abitudini che ti portano a perdere… E rinunciano, investono e rinunciano, perché un giorno… un giorno si godranno il frutto del loro risparmio. Un giorno quando? Boh, non lo sanno, perché il futuro è sempre nascosto in mezzo ai trattini della loro semiretta.

Poi alle persone capitano cose strane. Un tizio esce il lunedì mattina con il suo scooter e le palle girate perché la sua squadra ha perso il derby. Un altro tizio esce il lunedì mattina con il suo furgone e le palle girate perché la sua squadra ha perso il derby. Il primo tizio ha il semaforo verde, il secondo rosso, ma anche tanta fretta. Un colpetto leggero, roba da niente, se fosse una macchina. Ma uno scooter no: uno scooter vola via! Il primo tizio si fracassa contro un palo e muore sul colpo. Il secondo tizio, asfaltato dai sensi di colpa, diventa un vegetale e il suo mondo sparisce nella nebbia dei perché. Parenti e amici, ad arrovellarsi su quanto corta e strana sia la vita. Sorprendente, verrebbe da dire. Perché tutte le persone, tutte le semirette, sono da sempre dei segmenti. Senza la consapevolezza di esserlo. Così, riempiono la propria vita di illusioni, nella speranza che i trattini portino davvero all’infinito, o comunque più in là possibile. E proseguono, proseguono nella loro beatitudine. Ma a volte la semiretta diventa consapevole. Consapevole di essere, in realtà, solo un segmento. Fin dall’inizio. Perde i trattini in fondo e vede un punto, lì davanti, ben preciso. Sempre più vicino. E in quel momento?