Per una esegesi della complessità: il segno dei quattro quattro artisti, quattro modi profondamente diversi di affrontare la comune missione dell’arte, una missione esigente, come sanno molto bene i nostri ermeneuti, soprattutto in una realtà dove l’arte agli occhi dei più è vanità, nel senso qoheletiano del termine hèvel, un fiato che non sembra avere grande importanza, un vapore che si dissolve presto, ma che, dal sorgere dell’umanità, non cessa di mostrare tutta la sua forza, oltre il tempo e lo spazio. La ricerca qui proposta di Mario Artioli Tavani è uno sguardo disincantato alle consuetudini, agli usi ed agli abusi della contemporaneità, quel tempo definito postmoderno che, come l’artista ci ricorda, da un lato è il tempo del «falso benessere», dall’altro è il tempo degli intrighi, un tempo a cui solo «l’albero della cultura» può garantire la sopravvivenza, in una rinnovata palingenesi da cui le mani, forse dell’artista, sicuramente dell’umanità, si aggrappano all’uovo della «creazione» nel tentativo di uscire da esso e dare vita ad una nuova era, in una lettura al contempo affascinante ed avvincente, dove ognuno ritrova il suo cammino, ciascuno percorre il suo itinerarium mentis, ricercando le finalità di ogni agire, di ogni essere nel mondo. Chi, come Anne Brechbühl, ha una particolare dimestichezza con le tecniche della grafica come la xilografia e la calcografia e che lavora in vari ateliers di artisti e di stampatori d’arte importanti con numerose mostre personali e collettive nazionali e internazionali di grafica e di ex-libris, conosce perfettamente l’arte di formare matrici incidendo linee, segni ed immagini su lastre metalliche per trarne poi la stampa e la riproduzione in tiratura mediante idonei sistemi, ma con una profonda ispirazione legata ad una ermeneutica della vita che si manifesta sovente attraverso un simbolo principale, quello della scala. La scala, da un lato simbolo della vita, dai gradini sempre troppo alti per le nostre corte gambe, dall’altro simbolo dell’artista che, in modo neoromantico, manifesta quella sensucht, quella aspirazione all’infinito che poi, come nelle opere presentate, è anche frammentazione del finito e del fenomenico, con quel recupero postmoderno dell’immanente e del trascendente che il volto femminile tra le mani così bene simboleggia. Caty Fiol manifesta nelle sue opere una sensibilità particolare che produce una visione delle cose e della realtà che origina da un centro di esternazione formidabile: l’anima e i suoi stati emozionali, dove l’artista si immerge come un rinnovato palombaro dello spirito, effettuando straordinarie estroiettazioni di magma psichico, dove il colore domina incontrastato in una finta dimensione fenomenica che altro non è che il luogo della coscienza, seppure mimetizzato nel paesaggio. L’artista sa perfettamente che l’arte, mai come oggi, è uno strumento di conoscenza e ogni artista, l’artista vero, estroietta sulla tela, sul tondo di ceramica, sul sacco di canapa, sulla carta, sul cartone, su di una colonna di cartongesso, insomma dove e come meglio crede, i sentimenti, le emozioni, le ansie, le gioie, le tristezze che si sedimentano nell’anima e che l’ispirazione fa eruttare nell’opera d’arte, monomio-binomio inscindibile di questa società definita postmoderna, nella quale l’uomo perde sé stesso, l’artista perde sé stesso, dopo la fine delle grandi narrazioni, dopo la morte dei grandi valori di riferimento. Prova ne è la figura dello spaventapasseri, emblema perfetto dell’artista che sa che il mistero presente dell’esistenza è qui ed ora, ma è rivolto altrove. Ogni opera di Gianfranco Zazzeroni è una intensa partecipazione alla vita, una identificazione panica di una totalità fisica e psichica, come è stato giustamente detto. Ma è nel particolare che l’artista assume l’universale, è nella dimensione fenomenica che introietta le grandi verità del mondo, a volte nascoste nei «frammenti di un arcobaleno» o nei meandri dell’«orchidea» che sempre incarna quel meraviglioso “magma della vita” a cui Zazzeroni ha dedicato una preziosa meditazione, partecipando a processi di disvelamento, non credendo che la vita sia quella che si vede. Zazzeroni guarda, decostruisce, destruttura, e poi ricompone alla luce della sua visione del mondo, della sua inchiesta esegetica, che rende con precisi tratti, padroneggia con il chiaro intento di proporre una personale visione di quell’attimo spazio-temporale che fissa il momento di una stagione o l’istante di una relazione con l’alterità che alla fine è il vero senso della vita.