The Hundredth Window

The Hundredth Window. Titolo fortemente evocativo che rimanda al libro di Charles Jennings e Lori Fener, in cui si parla dell’impossibilità di una privacy completa nella nostra era – quando ci si collega in rete si diventa una finestra on-line, tutti possono sapere tutto di noi – ma anche alle sonorità oscure e suggestive del quarto album dei Massive Attack. Unica didascalia alla mostra è una citazione, tratta dal film “The rear window” di Hitchcock, che ci trasporta nella mente di un voyeur, risvegliando i nostri istinti più repressi. «Il tema della finestra è un fil rouge che è nato al VII anno di apertura della galleria, considerando che quasi tutti gli artisti con cui ho lavorato hanno utilizzato questa tematica – afferma il gallerista Jacopo Jarach – La fotografia è di per sé una finestra. Studiando con Guido Guidi ho imparato che il valore di una foto risiede non tanto nel particolare che vi si inserisce all’interno, ma in cosa si decide di escludere». Interessante in questo senso è l’opera di Giorgio Barrera che si pone come un’indagine sulla verità del comportamento umano nella condizione artificiosa della mise-en-scène. L’artista è a margine di una fiction dove attori consapevoli del loro ruolo interpretano il copione. Nascosto alla loro vista, cattura l’autenticità dei gesti umani invitando a interrogarci sul labile confine tra apparenza e realtà. Simone Bergantini presenta un’opera tratta dalla serie Black boxes, vincitrice del premio “Talent calling” indetto dall’illustre Foam Magazine nel 2009. Una finestra emerge dal buio attraverso la luce del mondo sensibile, unico mezzo di misurazione di spazio e di tempo. È una palpebra socchiusa che invita a liberare l’inconscio e lasciarlo affiorare. La pellicola polaroid T-55 ha permesso di realizzare una foto che suggerisce una meditazione sul passato e sul presente del medium artistico. Come afferma l’artista: «Black boxes nasce da una riflessione sul significato di concepire un’immagine oggi, dal momento che si stanno creando una serie infinita di immagini, e sul modus operandi dei fotografi del passato; è un reportage emotivo che racconta immagini interiori».

Teodoro Lupo mostra i micro dettagli di un paesaggio abbacinante che è l’esterno di una casa in costruzione in un Canada innevato. È la fotografia di una fotografia vista dal monitor di un pc, pubblicata in un blog, che racconta il work in progress dell’abitazione. Il cambiamento ad opera dell’uomo appare vanificato dal perpetuo avanzare della natura che superba, si impone come protagonista della scena. Anche al centro dell’opera di Yusuke Nishimura vi è una manifestazione del creato, il cielo. Cinque finestre mostrano il layer di diverse cromie dell’etere; è uno spettrogramma che magnetizza lo sguardo e risveglia la coscienza, costringendola a compiere un viaggio dove l’iperuranio è meta finale. Mirko Smerdel rende visibile il soprannaturale attraverso la Kirlian Camera. L’aura di un luogo che non esiste più, grida vita. Un’esplosione di colore sconvolge il bianco e nero del libro in cui vi è narrata la storia dello spazio che ha ospitato Gamma 60, il primo computer a essere utilizzato in una banca italiana. È una finestra temporale aperta sul passato in cui trapassa la brezza dell’energia cosmica creatrice dell’universo. Daniele Pezzi tenta la rappresentazione del divino ancestrale. Ritagliando elementi presenti in vecchie fotografie degli anni ’60 – in cui la polizia segnala dei lavori da svolgere nel territorio – opera sulla superficie creando un vuoto. È la dichiarazione della volontà di superare i limiti umani della percezione sensoriale per raggiungere ciò che è oltre la conoscenza del momento. Come dichiara l’artista: «Il mio intervento crea una sospensione, un enigma, che fa rifermento a qualcosa che non c’è più, a un’immagine che fa parte di un altro universo, di un altro livello, che io considero come il livello di Dio. Per me il divino è qualcosa che c’è tra le cose, è una presenza». È la divinità arcaica che prende la parola nel Nuovo Testamento apocrifo del culto gnostico che viene invocata nella didascalia posta al di sotto delle fotografie.

Oggetti dell’opera di Kensuke Koike sono la solitudine e la noia. Il foro proiettato sul muro esige l’immedesimazione empatica con il topo più famoso del mondo, Jerry, che abbandonato da Tom e dai suoi padroni diviene immagine dell’inquieta condizione dell’uomo contemporaneo. La Venezia di Yamada Hanako è sorella della cattedrale di Rouen dipinta da Monet. Al risveglio, tra il 2009 e il 2011, l’artista ha catturato con rigore quasi maniacale il paesaggio che si offriva dalla finestra di casa sua, in 286 scatti fotografici. La dinamica di luce e atmosfera investe la città di possibilità. «È un invito a soffermarsi, a non guardare con superficialità e velocità ma cercare di cogliere le piccole differenze che ci sono nello stesso soggetto», afferma Hanako che quest’anno è stata selezionata per uno studio d’artista alla fondazione Bevilacqua La Masa. Infine Guido Guidi, presente quest’anno in Biennale, propone una fotografia scattata sull’Etna. Un gioco ironico tra le geometrie dell’ambiente lavico e delle finestre dell’abitazione solitaria, simula forme antropomorfe che sfidano il cliché dell’Italia da cartolina. Fino al 3 agosto, Jarach gallery, San Marco 1997, Venezia. Info: www.jarachgallery.com

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