Per il padiglione dell’America Latina, Iila (Istituto Italo-Latino Americano), all’Arsenale, vi è la mostra el Atlas del Imperio. Un vero e proprio immaginario atlante culturale e che mappa trasformazioni in atto nei singoli paesi e osmosi che ne valicano i confini. Tra le opere esposte, con una preponderanza di installazioni e video, risultano estremamente interessanti due casi di stretta collaborazione, ovvero artisti che lavorano in una fluida simbiosi di intenti, in un lavoro di gruppo che sfocia nella Biennale, consolidato da anni di esperienze in comune. Si tratta del progetto del duo di filmakers cileni León&Cociña, che presentano Los Andes, e gli ecuadoriani Miguel Alvear e Patricio Andrade, con il film Black Mama.
Entrambi i gruppi, pur con peculiarità assolutamente indipendenti nell’esplorazione delle tecniche cinematografiche e con modalità differenti di ricerca, lavorano principalmente sulla trasformazione dell’identità collettiva, creando una propria epopea. Punti di contatto nelle due opere sono le stratificazione di tradizioni, credenze, mitologie, religioni, del proprio paese, utilizzando un’immensa commistione di riferimenti noti come punto di partenza per una nuova via di fare arte, attraverso il viaggio. Ed entrambi i lavori che vengono presentati sono quasi viaggi per gli artisti stessi, perché progetti portati avanti da lungo tempo, e tutt’ora in corso. Abbiamo intervistato gli artisti Miguel Alvear e Patricio Andrade, autori del video Black Mama. Il primo è un artista visivo e regista; il secondo è coreografo ma nasce ballerino di danza classica per poi approdare alla contemporanea e nel film è anche attore. I due si sono conosciuti nel 2002 e hanno subito iniziato una collaborazione per spingersi l’uno oltre i limiti del linguaggio cinematografico, l’altro oltre i limiti della danza classica.
Come nasce Black Mama?
Alvear: «Inizialmente il video nasce come versione scenica: era un progetto di teatro, che includeva ballerini e il video sarebbe stato proiettato sullo fondo. Poi, abbiamo deciso di fare in modo che il supporto audiovisivo acquistasse una maggiore indipendenza e che la danza fosse contenuta in esso, facesse parte di esso. E qui nasce il vero dialogo tra le due discipline».
Dunque un lavoro durato molto tempo.
Alvear: «Se la prima collaborazione è stata nel 2002, poi ci siamo ritrovati nel 2004, nel 2006, e il processo di chiusura del film, di registrazione e montaggio, è terminato nel 2009. Lavorando sempre insieme. Per la versione cinematografica abbiamo invitato altri artisti, per lavorare nelle diverse sezioni, dal disegno all’illustrazione, per la colonna sonora originale, e per la scenografia, che è abbastanza complessa».
Andrade: «Abbiamo lavorato in questo modo per decodificare la tecnica classica, trasgredire i significati e per incontrare altri linguaggi della cultura ecuadoriana».
Alvear: «Il nostro interesse principale dunque è questo metodo di collaborazione interdisciplinare. E diamo spazio alle diverse collaborazioni anche attraverso la suddivisione in scene».
Questi sketch raccontano scenari con riferimenti importanti alla tradizione ecuadoriana.
Alvear: «È questo il background del film: in Ecuador, a Latacunga, si celebra una festa molto seguita, la Mama Negra – che noi traduciamo in Black Mama – che consiste in una processione dedicata alla vergine della Merced, patrona del vulcano. È molto nota, in Ecuador tutti conoscono la potenza di questa festa. Abbiamo voluto fare una ricerca antropologica e, studiandone le caratteristiche, ne monitoriamo il mutamento nel tempo, per vedere come sta cambiando e in quale direzione potrebbe andare. Ci interessa com’è avvenuto il passaggio di questa celebrazione che, nata originariamente in Africa, è passata poi per la Spagna, e da lì per l’America settentrionale fino ad arrivare in Ecuador, dove quindi si è fermata per alcuni secoli, ma comunque è in continua trasformazione. Una trasformazione nella forma, nei modi di dare un tributo alle divinità, fino a incorporare la cultura del momento. Così con gli anni la festa va sommando stratificazioni su stratificazioni. E questo si vede nel vestiario, negli oggetti, nei gesti e nei movimenti del corpo. Ci sembrava molto interessante mostrare questi passaggi. Tutto ciò parla di ibridazione».
Spesso in maniera ironica, nel vostro film.
Alvear: «Sì, perché si tratta di una festa popolare in cui si ride del potere – ad esempio gli uomini si vestono da donna – però allo stesso tempo vi è mescolato un fondo religioso della cultura andina con l’ancestrale e con la cultura popolare di oggi e quella dei mass media».
Nel video la trasformazione avviene attraverso un viaggio. Il viaggio dei protagonisti: Black, Bàmbola e I Don Dance.
Alvear: «Il loro è un viaggio iniziatico, che percorre stazioni di rituali».
Andrade: «È come usare il riciclaggio, una mescolanza di materiali per farne altro. Si recupera, infatti, il vestiario, le scenografie e sottolineiamo il cambiamento di questi personaggi che si vanno modificando. In questo viaggio si trasformano in quello che vorrebbero essere ma che non sono. Questo è un aspetto molto interessante, perché alla fine cominciano a sparire uno dopo l’altro, spariscono attraverso il vulcano, dunque è come se con questa trasformazione, con questa evoluzione, i personaggi si auto-riciclassero».
C’è dunque una sorta di collegamento ipertestuale con l’inizio del film che ritrae i protagonisti nell’atto di riciclare la carta?
Andrade: «L’incipit è una metafora che pone il tono, prepara a quello che verrà in seguito. All’inizio i personaggi sono semplicemente dei riciclatori di carta, non sono coscienti di quello che succederà dopo. Riciclano carta, come fosse il riciclaggio della cultura, perché qui stiamo parlando in un certo modo di riflettere – adesso sì parlando concretamente della cultura ecuadoriana – sul tema dell’identità. Chi siamo, dove siamo, cosa facciamo qui. Lavoriamo su molti simboli e su molti piani differenti».
Le pagine distrutte nell’atto di riciclare significano qualcosa in particolare?
Alvear: «Sono libri di letteratura ecuadoriana, c’è la costituzione, c’è Nietzsche, c’è quello che fa parte del nostro bagaglio culturale. L’arte viene tagliata come tutto il resto, come a dire: ricominciamo da zero, tutto da capo».
Andrade: «È una ricerca dell’identità, ma che si sgretola. Ovviamente, noi ecuadoriani abbiamo un’identità ma a volte disperiamo per trovarla, per come sta strutturata. Per cui in definitiva questa identità l’abbiamo individualmente, ciascuno di noi, nella propria vita, ha un identità aperta».
Alvear: «Ci sono influssi che dicono che qualcosa sta cambiando».
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