Negli spazi della Gangemi Editore di via Giulia, ha inaugurato la mostra dal titolo La poesia della metafisica dell’artista siciliano Francesco Amico. Un pretesto per aprire un intimo dibattito su quelli che sono i moventi della pittura dell’artista, dibattito arricchito dagli interventi di tre professori e storici dell’arte: Bruno Mandura, Sebastiano Marino e il conterraneo Emmanuele Emanuele, presidente della fondazione Roma. Dalla Sicilia, terra natale di Amico, inizia una storia fatta di distacchi e ritorni, di memoria e nostalgia, protratta nei lunghi anni di vita romana. Tuttavia, come sottolinea Marino «La terra natale dell’artista é portata nel cuore e desta una vicinanza di mente e pensieri che non la rende mai lontana». I dipinti di Amico sono diari di viaggio di luoghi vissuti e attraversati, dove l’amore per lo spazio, le atmosfere dechirichiane e le architetture italiane fanno da protagoniste. Sembra così affievolirsi la sofferenza provocata dal desiderio di tornare in Sicilia, nòstos algos, e semplicemente, prosegue Marino, «viene coagulato a melanconia dei luoghi della memoria un omerico nòstos».
Fortissima, invece, la dimensione della memoria e la sensazione di nostalgia dell’artista, quando nella rappresentazione del castello manfredonico della natía Mussomeli, la monumentalizzazione dello stesso lo rende come un totem catartico. «Amico è cantore della terra di Sicilia, che va riportata ai fasti da cui proviene» dice il Prof. Emanuele enfatizzando quel ruolo di narratore talvolta intercettabile nelle sue opere. Lo stile di Amico arriva con chiarezza agli occhi dello spettatore, che ne decodifica facilmente gli oggetti e le ambientazioni, una semplicità poetica dice Mandura, evocando la limpida chiarezza con cui ordina i suoi dipinti.
Elemento ricorrente nelle metafisiche scenografie dell’artista, seppur in dimensioni e composizioni diverse, è la presenza di una sfera, elemento di perfezione, «insieme alla colonna – dice Amico – sono segni che mi consentono di far diventare il tutto un po’ più metafisico». L’artista sorvola con colori pastello e luci indecifrabili, alla maniera metafisica, spazi monumentali antichi e moderni dall’auditorium di Ravello a Caracalla al chiostro dei Cappuccini di Amalfi, ai faraglioni di Capri in dialogo con l’arroccata casa di Curzio Malaparte, si sofferma a Roma, dove non mancano il circo Massimo e il Maxxi; senza tempo anche le mura aureliane la cui atmosfera rarefatta è disturbata da due sfreccianti testa rossa, che sembrerebbero affacciare tratti futuristici nella cornice metafisica dell’opera; e poi ancora, la villa di Nerone di Anzio, accarezzata dai colori di un tiepido tramonto, il teatro Marittimo di Tivoli, e di nuovo Roma, dove, dinanzi alle scuderie del Quirinale, come sul sagrato della chiesa dei Fiorentini e sul terrazzo di castel Sant’Angelo, la composizione metafisica del dipinto si popola di figure rosse, neo-muse inquietanti? Infine una vista di Mussomeli, emblematica. La cittadina è sbiadita, ricomposta nel ricordo, viene presentata, forse non a caso, completamente grigia incerta, incompleta. Per restituire la luce a quei luoghi urge il nòstos. Accompagna la mostra il catalogo omonimo, edito dalla Gangemi
Info: www.gangemieditore.it
Maria Letizia Bixio