Dopo la contestata prima mostra Ritratto di una città, arte a Roma 1960 – 2001, negli spazi del Macro da novembre ad aprile, il direttore Bartolomeo Pietromarchi mantiene la parola data in sede di polemiche sui numerosi assenti ingiustificati, e inaugura la sessione di recupero dal titolo: Ritratto di una città #2, arte a Roma 1960 – 2001. Recuperati in itinere, nel nuovo percorso della mostra, molti dei nomi evocati nella lettera di denuncia inviata da Giovanna Dalla Chiesa, curatrice e docente dell’accademia di Belle arti di Roma, ad Adriana Polveroni di Exibart, tra questi, Carlo Maria Mariani, Stefano Di Stasio, Paola Gandolfi, Felice Levini e Pino Salvatori; recuperati anche Tranquilli, la Paris e Aquilanti, ancora fuori Colazzo, Notargiacomo e Asdrubali.
Giunti a questo punto, non ha più senso continuare a stilare su prolissi cahiers de doléances la concitata lista dei non ammessi, quanto piuttosto, urge interrogarsi sulle scelte storico-critiche che hanno portato alla seconda selezione. È pacifico che a ogni curatore deve esser data la massima libertà nell’interpretare il tema dato a una esposizione da lui seguita, quel che in questo caso appare fuorviante rimane il titolo, laddove il pubblico italiano, e soprattutto quello straniero, è inevitabilmente indotto a pensare che la mostra fornirà una panoramica didascalica e attendibile della Roma artistica negli anni menzionati. Nulla quaestio, dunque, se la mostra si fosse intitolata The best of Rome 1960-2001 by Macro, se non altro sarebbe stato chiaro un intento selettivo curatoriale da parte del museo; ciò che invece alimenta l’aspettativa dell’ingenuo pubblico, disposto a pagare più di dodici euro per l’ingresso, è un titolo che ambisce a ricostruire fedelmente un quadro completo di quegli anni, garantito dal prestigio di cotanta istituzione museale.
Tuttavia il percorso si apre con due capolavori degli anni 70, la cui sola vista vale il prezzo del biglietto: le prime due opere, a firma Fabio Mauri e Enrico Castellani, infatti, costituiscono una sorta di calcistica difesa, schierata come scudo di protezione ai numerosi vuoti, mancanze e imprecisioni, presenti all’interno della sala Enel nel proseguo del percorso. La fine è l’inizio stesso, ammonisce profetica l’opera di Mauri The end! Lo schema difensivo in atto è invece ben sintetizzato dalla contigua opera di Mambor La difesa. Calcio balilla, che schiera le migliori, nonché uniche, teste di serie sulla prima linea di un inesistente campo da gioco, metafora vera e propria di tutta la mostra. Si prosegue con un immancabile smalto di Schifano, segno e simbolo di quella Roma cialtrona a cavallo tra il ‘60 e il ‘70, poi senza dovute spiegazioni un piccolo De dominicis con affianco un Boetti del ’78 con i suoi armonici e invettivi quadrettati ripassati a biro. Ed ecco l’inspiegabile Senza titolo di Robert Morris (1983), cosa c’entra con il panorama romano? Qualsiasi turista statunitense mediamente informato saprà che il suo ingresso a Roma fu nel 1997 per la mostra a palazzo delle Esposizioni, eppure Morris si trova lì senza un aiuto, anzi forse con un suggerimento in didascalia: collezione Pino Casagrande! Splendido anche il Parnaso di Giulio Paolini del 1977, collezione Pieroni, del resto, una garanzia.
A coronare la zona dedicata agli anni ’80 una parete accoglie la ferale bruttezza insulsa del Visibile dell’invisibile di Sabrina Mirri, perché lei e soprattutto perché quell’opera? In certe occasioni si rimpiangono i prolissi cartelloni esplicativi in stile complesso del Vittoriano. Mesto anche Andrea Franchi, più doveroso l’intervento di Felice Levini che quantomeno era atteso dai tanti amatori e simpatizzanti. Andrea Fogli con i suoi disegni neri del 1982-83, non restituisce appieno il senso di un’epoca, ma di certo lascia apprezzare il suo tratto sicuro e poetico, simbolico e sensuale. Ci si chiede poi da quale salotto borghese romano, sia stata scomodata l’opera senza titolo, che se pure l’avesse avuto sarebbe stato uguale, della Stefania di Stasio del ’79, 1879 vien da pensare. Quanto nostalgico figurativo anche nel lavoro della Gandolfi, dove l’indizio chiave è la collezione Cerasi. Di fronte alla desolazione della pittura femminile del ‘79, un vigoroso Carlo Maria Mariani inscena con dovizia accademica il mito di Orfeo a matita e grafite, dando spessore e rilievo ad arte e tecnica. Prima di passare alla sala dedicata agli anni ’90, meglio definirlo ultimo capitolo, occorre non dimenticare l’enorme parete laterale della sala Enel, dove le giovani leve dello staff del Macro si sono dilettate a realizzare il più grande collage della loro vita, provando a razionalizzare, seppur con numerosi errori di battitura nei pannellini esplicativi, la polverosa mole di riesumate pregiate carte della documentazione archivistica. E allora assemblati vicini per colore e forma, ad esempio, tutti gli inviti della galleria La Tartaruga o della Nuova Pesa con Busi, Aquilanti, Ligorio e Delogu, quest’ultimo, personaggio chiave di tutto il Macro, da tempo anima curante e curata di numerose mostre e iniziative nel e del museo. Dalla recentissima Altra Ego, che lo vedeva fotografo di Giosetta Fioroni, alle tante iniziative a suo nome durante il Festival della Fotografia, ed ora con i 9 scatti del 1998 dal titolo Cardinali, gli è stata assegnata una collocazione da padrone di casa proprio nella hall del Macro. Le ragioni? Una benedizione per l’atrio di Odile consacrata da 9 Eminenze? Una cosa è certa, il peso della sua presenza travolge quello della sua arte e il Macro rischia di diventare una gran operosa Parrocchia.
Al capitolo anni ’90 presiedono i grembiulini di Marina Paris, una Classe di senza volto che ben dialoga con i ritratti in Mirrors”di Gea Casolaro del ’98. Dello stesso anno, seppur concettualmente anni luce dal lavoro della Casolaro, l’opera di Adrian Tranquilli, Calimero the Big bang, sembra caduta da un’altra galassia, il primo lavoro che con un linguaggio nuovo, cinico, ma soprattutto attuale, lascia intendere il vero passaggio di un’epoca, nulla togliere al Cupolone di Andrea Aquilanti, splendida serigrafia su plexiglass, che parla di quella Roma con i topoi alla Remo Remotti, che non devono mancare mai. Ma l’ultima opera del capitolo anni ‘90 è davvero emblematica, l’artista è Yoko Ono, celebre moglie di John Lennon, presenta il suo iper-pop lavoro del ’93, dove in un’assemblage di più tele è riportato il primo verso musicale della celbre Immagine; considerando che l’artista e musicista giapponese, naturalizzatasi americana, non ha mai avuto con Roma nessi di forte rilievo, viene nuovamente da chiedersi il perché di quell’esposizione. La risposta ormai sappiamo dove trovarla, in didascalia: collezione Carlo Verdone.
Fino al 15 settembre; Macro, via Nizza, Roma; info: www.museomacro.org