Croppi rilancia Daverio

Roma

Umberto Croppi, l’ex assessore alla Cultura di Roma, ha le idee chiare. Ha proclamato da poco la sua candidatura a sindaco della capitale e lo ha fatto alla luce di un’esperienza, quella conclusasi con il traumatico rimpasto di giunta del 2010, che lo ha fatto entrare nel cuore di molti istituti culturali della città. Un progetto un po’ velleitario? Lui è convinto che non sia così. Il suo vissuto ora gli consente di gestire con grande disinvoltura rapporti e problemi su cui dimostra una padronanza fuori dal comune. Tanto che azzarda anche un totonomine culturale nel caso vincesse le elezioni, ritornando su una figura che corteggia da tempo: Philippe Daverio, che vedrebbe bene alla guida del palazzo delle Esposizioni di via Nazionale. Croppi non fa mistero di tutte le idee, progetti, risentimenti, avventure, aneddoti, simpatie e antipatie e nel suo ultimo libro Romanzo comunale (Newton Compton editori), scritto a quattro mani con Giuliano Compagno, svela tutti i segreti dei palazzi del potere di Roma dal suo punto di vista, senza risparmiarsi nei confronti di nessuno. Un racconto autobiografico tra scandali, malapolitica, prevaricazione e speranze.

Croppi, nel suo libro lei spara a zero su molti personaggi dell amministrazione comunale. Soprattutto con riferimento a Gianni Alemanno. Le ha fatto una telefonata il sindaco dopo la pubblicazione?

«Al sindaco il libro l’ho dato alcuni giorni prima che uscisse. Ma non ho avuto da parte sua alcun tipo di segnale. Nemmeno da parte degli interessati che vengono trattati con meno riguardo. Ne ho avuti molti, invece, da parte della struttura comunale. Una battuta che circola in Campidoglio è «Finalmente l’ex assessore Croppi ha costretto i dipendenti a leggere un libro».

E le reazioni degli operatori della cultura romana?

«Tutte positive. O comunque di partecipazione allo scoramento in cui ci si trova. Con tutto il mondo variegatissimo della cultura, tra operatori, fruitori e gestori di istituzioni, ho mantenuto e accresciuto un rapporto costante di collaborazione e consenso. Il libro, in cui spiego alcuni meccanismi che sono stati dietro le quinte della mia azione, è servito anche a dare conto delle cose che ho fatto in modo specifico».

Lei inquadra il suo successore, Dino Gasperini, come un vecchio democristiano. Nel libro si evince come lei non abbia proprio gradito il modo in cui, dopo l’insediamento del nuovo assessore alla Cultura, si è conclusa la vicenda del Macro.

«È il fatto più clamoroso. Con le due delibere che avevo fatto approvare in giunta si istituiva il museo Macro, gli si assegnavano spazi, collezione, archivio e si creava la fondazione Macro, a cui sarebbe stata consegnata la gestione di tutto quello che afferiva al museo. Le delibere dovevano andare in Consiglio comunale per la definitiva approvazione. Gasperini, però, adducendo un argomento assolutamente inconsistente, e cioè che le delibere fossero sbagliate, ha interrotto tutto quanto. Si è inventato un’altra fondazione ma si tratta di un ente di pura gestione artistica, con cui si riducono gli spazi. Tuttavia nemmeno questa fondazione ha compiuto il suo iter. Come io avevo previsto si concluderà la consiliatura senza che il Macro abbia trovato la sua governance. Continua a non essere nemmeno un museo».

Eppure lei il Macro lo ha tirato fuori dal nulla. Come ha vissuto il passaggio del testimone da Barbero a Pietromarchi?

«Con Barbero avevamo fatto un ottimo lavoro. Dopo la mia estromissione, su di lui è stato esercitato un vero e proprio mobbing. È stato messo nelle condizioni di dimettersi. Pietromarchi è sicuramente un bravissimo direttore, anzi quando il sindaco mi ha chiesto un parere su di lui – i miei rapporti con Alemanno, all’epoca, erano ancora buoni – io mi sono espresso in termini assolutamente favorevoli nei suoi confronti. Ma Pietromarchi si trova oggi a operare con limiti enormi di autonomia e limiti finanziari. E poi si è prestato un po’ a questo gioco dell’assessore di istituire questa fondazione per il museo, praticamente inattuabile. Ha rivendicato addirittura tale progetto come una propria creatura, confondendo i ruoli, perché non è il direttore che definisce la governance ma l’assessore».

Nel libro lei parla di tanti amici e di tanti presunti nemici che diventano suoi amici. Su questo consenso bipartisan ha costruito il progetto della sua candidatura a sindaco di Roma?

«Effettivamente all’inizio del mio mandato ho dovuto combattere con un pregiudizio latente che veniva alimentato nei miei confronti ma durante la mia guida all’assessorato alla Cultura mi sono conquistato la fiducia di molti miei interlocutori nel mondo della cultura. Alcuni di loro sono finiti tra i miei sostenitori della candidatura a sindaco di Roma e non si può dire che provengano dalle file della destra. Sicuramente questa fiducia è stata una spinta in più. Questo consenso me lo sento intorno».

Giovanna Melandri è il nuovo presidente del Maxxi. Un gran polverone ha accompagnato questa notizia l’anno scorso. I criteri che hanno promosso questa decisione non sono perfettamente assimilabili a quelli che Croppi adottava nelle nomine ai vertici dei musei.

«C’è un problema di fondo, che riguarda la governance di quasi tutte le istituzioni culturali. Il ruolo di un consiglio di amministrazione è quello di pensare esclusivamente alla gestione amministrativa. Il Prado, ad esempio, ha un cda composto da circa 60 membri, che rappresentano una quantità enorme di istituzioni pubbliche e di soci, e che non entrano nelle scelte artistiche. Invece la figura del presidente del Maxxi, al pari di quanto accade in altre istituzioni culturali, viene confusa con quella del direttore. Chi amministra si deve limitare a dare delle indicazioni di massima e scegliere i direttori, che si assumono in pieno la responsabilità della conduzione artistica. Perché un’istituzione culturale, sia essa un teatro o un museo, vive in funzione della personalità del direttore artistico, che deve poter operare in completa autonomia. Nel caso del Maxxi è eclatante come addirittura gli argomenti a difesa della Melandri riguardino la sua competenza nei contenuti. E lei di questo si sta occupando: dei contenuti, che dovrebbero essere, invece, una prerogativa del direttore».

È stato di recente al Maxxi? Come lo ha trovato?

«Si ci sono stato. Tutte queste istituzioni vivono una vita grama per i limiti finanziari. Il Maxxi è stato commissariato perché il ministero aveva previsto un finanziamento di due milioni. Pensiamo al Prado di Madrid, che ha un bilancio di 65 milioni. Sono distanze siderali. Per quanti sforzi di fantasia possano fare le figure che gestiscono il museo, il risultato è comunque modesto rispetto al livello che dovrebbe avere l’istituzione».

Se diventasse sindaco quali nomi non dovrebbero mancare tra le candidature alla direzione artistica delle seguenti istituzioni: il teatro dell’Opera.

«Mi chiede veramente troppo».

Proviamoci.

«Per il teatro dell’Opera, come ho raccontato nel libro, avevamo interpellato ed eravamo a un passo dalla nomina, ad esempio, Cristiano Chiarot, che poi è diventato sovrintendente della Fenice di Venezia. Per me resta una persona indicatissima».

Palazzo delle Esposizioni.

«All’epoca la mia scelta era ricaduta si Philippe Daverio e credo che comunque lui sia una persona che dovrebbe collaborare alla vita culturale della città».

Macro.

«Qui la questione è più complessa, perché io rimetterei in piedi l’ipotesi della fondazione e in tal caso sarebbe la fondazione, in qualità di soggetto autonomo, a scegliere il direttore».

Fondazione Cinema per Roma.

«Anche qui il caso è più articolato. Le funzioni essenziali vengono affidate al presidente, infatti il festival veniva identificato con il suo antico presidente, Gian Luigi Rondi, che faceva il piano editoriale del festival e che proponeva la nomina del direttore. Con Mueller si sono invertiti i ruoli senza modificare l’assetto istituzionale. Quindi mentre prima si parlava del festival di Rondi, ora si parla del festival di Mueller. Quindi intanto andrebbe ridefinito questo aspetto».

Non ha detto il nome.

«Mueller potrebbe andare bene, ma bisognerebbe ridisegnare il contesto degli equilibri istituzionali. Non ho pregiudiziali nei suoi confronti, fui io a presentarlo ad Alemanno».

A proposito, date le difficili condizioni finanziarie, quale pensa che sia il futuro del festival del Cinema di Roma?

«Ora la situazione del festival è veramente drammatica. Temo che i soci rinnovati attraverso l’elezione di Regione e Comune si troveranno di fronte alla nuova edizione in grossa difficoltà e non so se ce la faranno a tenerla in piedi».

E alla sovrintendenza del Comune ai Beni e alla attività culturali chi nominerebbe?

«Sono corresponsabile della nomina di Umberto Broccoli. Con lui ho stabilito anche un rapporto di affetto ma credo che non sia la figura adatta a svolgere quel ruolo. Si porrà nuovamente il dilemma se affidare l’incarico a una figura interna, e ce ne sono moltissimime estremamente valide, o affidarsi, come è stato fatto in passato, a una grossa personalità esterna. Io, alla luce dell’esperienza fatta e delle condizioni attuali, sarei più per la prima ipotesi. Ci sarebbe più di un nome spendibile».

Come andrebbe strutturato il rapporto tra pubblico e privati nella promozione e nello sviluppo del patrimonio culturale della città di Roma?

«Quelle che vengono chiamate sponsorizzazioni nella pubblica amministrazione nella quasi totalità sono solo attività di pubbliche relazioni. Vengono seplicemente dati dei soldi alle amministrazioni in virtù di qualche interesse da reclamare. È un sistema che qualcuno chiama tangenti legalizzate. La sponsorizzazione vera è un’altra cosa. Se un’azienda sponsorizza un’iniziativa quello che deve avere in cambio non è solo il marchio ma la possibilità di utilizzare un logo ad hoc, anche per poter dire nella propria comunicazione interna che l’azienda è lo sponsor dell’iniziativa. Un caso è quello dell’Enel con il Macro, che è stato percorso, quando ero assessore, proprio in questa direzione. E poi bisogna stabilire una partnership, che non si configura in una semplice dazione di una quota di denaro alla pubblica amministrazione, ma significa definire insieme dei progetti che siano funzionali a entrambi».

Dopo tutto quello che ha scritto su Alemanno nel suo libro, lo sosterrebbe nel caso di un ballottaggio?

«No».

Chi spera che vinca le primarie del centrosinistra?

«Con Gentiloni ho un rapporto di conoscenza personale e forse questo faciliterebbe le collaborazioni. Il problema è che comunque si muovono tutti all’interno di un contesto di continuità. Roma, invece, ha bisogno di una rottura. C’è Marino, che è legato a Bettini, uno che parla addirittura di riconquista, restaurazione di quello che si era interrotto. Sassoli è legato a Roberto Marroni e a tutto il gruppo che rappresenta. Si stanno organizzando, in sostanza, all’interno della solita logica degli apparati».

 

 

 

 

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