L’arte è quella che rimane

Nei momenti di crisi c’è sempre qualcosa che ringraziando il cielo gira per il verso giusto. Questa volta la fortuna, se vogliamo chiamarla così, è toccata all’editoria per bambini che contro un mercato editoriale che lamenta bancarotta, i libri per l’infanzia con i loro guadagni, sono una felice eccezione. Parte integrante di questi lavori, è cosa risaputa, sono le immagini e gli illustratori italiani sembrano essere fra i migliori al mondo. Gek Tessaro, vincitore del premio Anderson, uno dei più alti riconoscimenti per un disegnatore, a proposito di questa fama nostrana dice che è tutta una questione di cultura e civiltà. «Le storie – continua – sono nate qui e in generale nel vecchio mondo, negli Stati Uniti hanno solo l’idea dello spettacolo». Con la scusa della conferenza internazionale per la nona letteratura dell’infanzia a Padova e della sua partecipazione durante la kermesse  al progetto Le città invisibili abbiamo sentito Tessaro per chiedergli cosa ha intenzione di proporre al suo pubblico all’interno della manifestazione. Oggi infatti alle 16 nell’università di Padova presenta un suo progetto, Figuratevi Pinocchio, che lo vede disegnare raccontando la storia di Collodi sotto delle composizioni musicali.

Figuratevi Pinocchio sembra quasi una performance: musica e disegno dal vivo. Come si è preparato per l’evento, ha già delle bozze?

«No, diciamo che parto con una serie di musiche sulle quali disegno, non mi lascio ispirare dall’emotività della composizione, piuttosto disegno sulla composizione. Per cui la ricerca è di trasformare i suoni più gravi in segni più grassi e quelli acuti in segni più fini. Per farlo uso molte tecniche diverse sulla lavagna luminosa. Vengono fuori delle illustrazioni che non sono un insieme di segni ma narrazioni, sono illustrative insomma della storia di Pinocchio».

Quest’idea di seguire la composizione ricorda molto Kandinsky e la sua teoria del colore.

«Sono un illustratore di bambini e il processo è diverso. A me interessa narrare attraverso le immagini più che dare significati o lavorare sull’astratto o sulla pittura».

Rimanere concreti quindi.

«Sì, rimanere figurativi in base anche alle tecniche che uso».

Tipo?

«Acrilico, china, acquerelli, sabbia. Tutte tecniche che ho preso dalla carta e lo spostate sulla plastica attraverso la lavagna luminosa. È tutto giocato sulla trasparenza».

Come fa a utilizzare queste tecniche, per esempio l’acquerello, sulla plastica?

«Diciamo che utilizzo molto le ecoline. Ci sono dei video su you tube, anche pirateschi, che possono essere utili per rendere l’idea. Poi parlare di disegni è sempre difficile».

Immaginino. Come mai ha scelto proprio Pinocchio?

«Credo che sia un patrimonio mondiale dal punto di vista della scrittura per ragazzi e non solo. È una figura dell’umana specie insieme a chisciotte e pochi altri. Il progetto è partito da un prima lettura per uno spettacolo al museo Luttazzi di Genova. Poi mi è stato richiesto da Città invisibili di rifare questa performance che ha però una particolarità: non ci sono parole».

Quindi la storia è raccontata solo attraverso le immagini?

«Esatto, sono solo illustrazioni, è questa la sua particolarità. Inoltre, chiudo la storia con l’impiccagione perché è lì che si è fermato Collodi la prima volta e credo che sia lì che debba fermarsi il libro. Personalmente il fatto che Pinocchio diventi un bambino un po’ mi rattrista e non sono l’unico a pensarla così. Le storie vissero tutti felici e contenti perdono d’interesse».

Diciamo che anche in passato le storie erano molto più crude, basta pensare alle favole dei fratelli Grimm.

«E mamma mia, esatto, erano più crude».

Una grande sfida quella di raccontare una storia solo attraverso le immagini.

«È un desiderio segreto di quasi tutti gli illustratori, raccontare senza metterci in mezzo le parole. Le lettere sono potenti e immaginifiche ma le immagini sono spaventosamente personali. È qualcosa di non scritto che ognuno di noi si deve scrivere per conto proprio, leggere alla propria maniera».

Sempre legato all’evento città invisibili c’è anche quella che sembra più una sua mostra al museo Diocesano di Padova: Rimanere, ritornare, dove lei interpreta i maestri del passato. Quali artisti ha scelto e in base a quale criterio?

«Il criterio è un po’ particolare, sono partito da una sorta d’idea semplice di viaggio. Quando si va in ferie o in vacanza si decide di andare in un posto, la mia idea era: sai che c’è? Mi faccio un piccolo viaggio e vado a vedermi otto quadri sparsi per la penisola».

Quindi tutti italiani?

«Sì, in sostanza sì, l’idea era un’omaggio alla grande arte italiana. Partendo da Verona poi giù per gli Appennini, Firenze, Roma e risalgo verso Mantova e lì mi fermo. Non è quindi una scelta sui maggiori ma su una decina di opere che mi hanno colpito, anche se quello che più mi interessa non è essere colpito o colpire gli altri; semplicemente è dire che uno dei problemi delle illustrazioni è che non hanno tempi. Mi spiego: lei può ascoltare una canzone che dura tre minuti, la può ascoltare bene o male ma sempre tre minuti dura. La Giocanda, invece, o qualunque quadro, lo possiamo guardare tre secondi come stare lì due giorni. Ecco, è un po’ questo: rimanere di fronte a un quadro è l’unica maniera per poterlo osservare, vederlo e per entrare in quell’opera. Così come rimanere di fronte a una persona o una cosa ci permette di incontrare veramente quella cosa o quella persona. Nel momento in cui si passa accanto non c’è l’incontro che è appunto sul tempo a mio parere».

Ed è per questo che ha disegnato delle opere, perché in qualche modo questo le permetteva di rimanere davanti all’opera e così incontrarla e conoscerla?

«Esatto, tanto più che le opere non le ho interpretate ma ridisegnate esattamente come sono. Il concetto non è un esercizio di bravura ma semplicemente che se io mi metto a ricopiare qualcosa, proprio ricopiare, sì, questa brutta parola, sto necessariamente un tempo forte davanti a quell’opera e in quel momento io entro dentro. Se lei si mette a disegnare un albero, quell’albero può dire di averlo capito, altrimenti ha visto solo qualcosa di passaggio che è poco più di un’ombra, nel momento in cui lei lo guarda, lo disegna, e lo può disegnare bene o male, è entrato in lei».

Veramente un bel pensiero.

«Ecco, il concetto è un po’ questo: è l’invito a rimanere. Finché si guarda, finché si vede non ci si incontra, ci si incontra quando ci si osserva, quando appunta si resta. L’altro tema è che queste persone che cinquecento anni fa hanno fatto questi quadri esistono ancora, sono ancora vivi e sono molto più vivi loro di tanti contemporanei. Influisce molto più Michelangelo della Sistina che molte persone vive. Anche qui il concetto è temporale, cioè di quanto l’arte possa attraversare, gli anni, i secoli e rimanere attuale».

Diciamo che questo allora è il ritornare del titolo se quello di prima era il rimanere.

«Esatto, Michelangelo ritorna. Di tante persone non rimane traccia, i grandi maestri non solo rimangono ma ritornano. E questo nel bene e nel male sono le radici della nostra civiltà».

Chiaro, ci può fare qualche esempio di opere che ha, come dice lei, copiato?

«Non sono opere famose, a parte in realtà, la Sistina di Michelangelo e il Giudizio universale che tra l’altro è un tema diventato attualissimo con l’elezione del nuovo papa. Voglio dire, la nudità intesa come purezza, come uguaglianza credo sia un concetto molto affine al nuovo eletto e lontano da chi invece ha fatto ricoprire le sconcezze del grande maestro. Poi abbiamo Leonardo da Vinci, alcune cose sue che a mio parere sono potentissime come il concetto del saper disegnare il vento sui vestiti delle donne».

Certo, lo sfumato.

«Sì, sì, la leggerezza. L’idea di disegnare qualcosa che non esiste come il vento».

Questi disegni come li ha riprodotti, con le stesse tecniche originali?

«No, la tecnica che ho utilizzato è quella scolastica. Non ho voluto mettermi a riprodurre l’olio o l’affresco. Ho voluto fare quello che avrebbe potuto realizzare un ragazzo di terza media, quelle cose che normalmente si fanno a scuola. Come quando al bambino gli viene messa davanti un’opera e gli viene chiesto di copiare. Potrebbe essere una situazione banale ma in quel momento lì, come dicevamo prima, l’alievo sta entrando nell’opera, deve rimanere a guardare il quadro».

Quindi ha disegnato proprio con le matite.

«Sì, con le matite colorate, con i pastelli».

The child and the book, conferenza sulla letteratura d’infanzia; fino al 23 marzo; università di Padova; info: www.educazione.unipd.it/web/?q=node/559