Sanremo o la legge del talent

Che altro ci aspettavamo dal Sanremo di Fabio Fazio se non un festival fazioso? Un barcollante minestrone delle sue trasmissioni, da Che tempo che fa a Vieni via con me passando per Quello che non ho, lenito in qualche modo – almeno nelle prime due serate – dalla formula della doppia canzone per ciascun concorrente. Manca solo Roberto Saviano ma l’accoppiata con la Lucianina nazionale funziona. Entreranno nei libri di sociologia delle comunicazioni di massa(cro), anche se il mix mostra ormai la corda e alla lunga butta (quasi) tutto in caciara. Troppo in caciara. Quanto al resto, come avevo già avuto modo di anticipare qui, la kermesse s’è trasformata in un’infinita sfilata della (sub)cultura popolare. Il forfait del maestro Daniel Barenboim ha in qualche modo dato il colpo di grazia alla formula. Tanto per capirci: apertura con Giuseppe Verdi e chiusura, giovedì sera, con Al Bano. In mezzo, Beppe Fiorello e il suo Modugno insieme al Toto Cotugno e il coro dell’Armata rossa. Spasibo.

Il pallone, prima di tutto. Che emozione rivedere il mito dei miei 10 anni, Roberto Baggio. E forse ho capito perché è sempre stato molto taciturno. Poi l’aeroplanino Vincenzo Montella e il nuovo italiano (?) Angelo Ogbonna. Poi lo sport, in generale, dalle fiorettiste al folle saltatore spaziale Felix Baumgartner. Insomma, nel pentolone l’emblema del culturame poco inter e molto nazionale fazioso non manca mai. È l’ingrediente cardine del successo. E poi tutto il resto, in una passerella continua di declamatori, presentatori, intervistine stiracchiate compresse in pochi minuti, belle facce baci & abbracci. Nel complesso, fino a ora, meglio la seconda serata (grazie alla metà interessante del cast) della prima e della terza, meglio dove non c’era il comico Maurizio Crozza (non per lui e nemmeno per quei quattro cretini che l’hanno contestato ma per il ritmo: tre quarti d’ora non si reggono più), meglio le canzoni che lo spettacolo. Già: per la prima volta da tanti anni c’è qualcosa di buono per le nostre orecchie.

A dominare la classifica provvisoria è per ora la dura legge del talent. D’altronde, col televoto, c’è poco da sconvolgersi se ci si ritrova Daniele Silvestri in seconda fila con la sua stupenda A bocca chiusa, già nuovo inno generazionale, preceduto perfino dalla prorompente neomelodica Maria Nazionale. In vetta gli alfieri dei programmi tv: il Prince di Ronciglione Marco Mengoni con la sua Essenziale (passabile), i fuori quota Modà col loro solito inno al gatto squartato (Se si potesse non morire), terzo gradino per la brava e bella Annalisa con un pezzullo a cavallo fra Giuliano Palma e Caro Emerald (Scintille). Quarta piazza per la gigantessa dalla voce fina, Chiara Galiazzo, anche lei da uno show tv, X Factor (Il futuro che sarà). Appare chiaro che difficilmente potrà vincere Malika Ayane, la nuova signora della musica leggera italiana, lasciata in gara col peggiore dei due brani sangiorgeschi (l’insipido E se poi, preferito dai televotanti al più complesso e intrigante Niente). Così come che i saltimbanchi del pop italiota hanno esaurito le cartucce: Max Gazzè e Simone Cristicchi sfoggiano canzoni che faranno il loro sporco lavoro radiofonico ma che, insomma, ne decretano la momentanea stipsi creativa (il primo con Sotto casa e il secondo con la funeral party style La prima volta che sono morto). Tanto per usare un eufemismo.

Dal cosiddetto mondo indie sono arrivati due pezzi del tutto in linea con le attese: gli Almamegretta coi loro soliti “reggae dal sapore mediterraneo” (poi ci spiegheranno cosa significa, dopo vent’anni non l’abbiamo ancora capito proprio bene) e i Marta sui tubi con un brano dei loro, che senza gli urlazzi da pescivendolo del frontman Giovanni Giulino potrebbero puntare a qualcosa di più. Se già dividevano la scena del sottobosco tricolore, figuriamoci una platea fisica e televisiva come quella di Sanremo. Boh. Elio e le storie tese non hanno deluso le aspettative, anche se di questo passo si rischia di, non so, scambiarli per la gang di un festino di Arcore piuttosto che per una pur bislacca superband. La canzone mononota è divertente – in particolare per alcuni passaggi – ma nulla di più. Da portare a casa, per ora, i bei momenti con Antony Hegarty e Asaf Avidan (pochi soldi ben spesi da mamma Rai, viva la crisi che costringe ad aguzzare l’ingegno), il sacrosanto monologo della Littizzetto contro la violenza sulle donne e l’idea di portare il flash-mob sul palco. Oltre alle gambe traforate della stupenda Bar Refaeli. Chi vince? Difficile dirlo, il bilancino è di quelli mefistofelici e la giuria di qualità (ma la qualità è riferita ai componenti della stessa o si chiama così perché dovrebbe premiare la qualità?) potrebbe abbondantemente rimestare nel cartoccio. Certo il mio nichelino lo punterei su Annalisa, Daniele Silvestri, Modà e Marco Mengoni. Tutto il resto è Ingroia.

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