Una luce nella notte della Calabria

Benvenuti nel paese che non ha più miti e che non ha più parole, nella più fonda notte dell’Italia, in un’oscurità chiamata Calabria. Così recita il frontespizio di Malinati (Bompiani, 375 pagine, 17 euro), secondogenito di Angela Bubba. Che, per una calabrese poco più che ventenne – è nata a Catanzaro il 14 febbraio 1989 – che si divide tra Roma e Mesoraca (Krotone) non è una dichiarazione priva d’intenti. Dopo l’ottimo esordio con La casa (Elliott, 2009), Bubba torna con un’opera di minore impasto linguistico ma dai toni suadenti, megavisioni letterarie, a volte, sviscerate a scapito del nulla narrato. Dove per nulla s’intende l’ordinaria disamministrazione della terra d’origine, come pure il quotidiano vissuto della comunità calabrese capitolina. Un saggio-romanzo, insomma un racconto dove tracimano, a tratti, pillole di un giudizio senza appello, diacce e sagaci. Piccoli esempi: «In Calabria tutto è falsamente immobile, giusto o sbagliato non conta più»; «il caso. L’unica divinità magnogreca rimasta in Calabria»; «fra lo stato del ridicolo e lo stato dell’onesto esiste un’altra cosa che si chiama Calabria»; «la prima privazione sono loro – i calabresi, ndr – e il posto dal quale provengono e dunque non possono accettarne altre»; «non sprecare e dunque non parlare». Parla invece, e molto, la giovane autrice, affidandosi a un registro colloquiale e diaristico che s’addice più a certa letteratura adolescenziale che alla cifra stilistica di una che usa l’immaginario e le parole come un giocoliere in pedana. Perché Angela ci sa fare, refusi d’editing a parte, su questo ci sono pochi dubbi. Al punto che viene da pensare se sulle ceneri di questa terra bruciata dai roghi estivi e sazia di dolori, non sia spuntata invece una rinascita letteraria, forte anche del Campiello vinto da Carmine Abate con La collina del vento. Così, in attesa della sua terza fatica, attualmente in gestazione – ma su questo la Bubba non si sbilancia: «C’è un’idea che mi sta disturbando da parecchio. Per il momento la sto covando in testa, devo capire se vale davvero la pena investirci qualcosa», dice – parliamo d’altro. A partire proprio dal luogo di nascita.

Che sensazione fa nascere in una provincia e ritrovarsi in un’altra, con la K, poi, una lettera piuttosto particolare, come dici in Malinati? «Catanzaro non è una provincia che conosco troppo bene. Ci sono nata, è vero, ma la mia provincia calabrese di riferimento rimane Crotone: non posso perciò esprimere considerazioni al cento per cento puntuali e inoppugnabili… Posso però dire che ogni volta che mi trovo a Catanzaro, a livello umano, non riscontro molte differenze rispetto all’ambiente crotonese. I problemi dei ragazzi, specialmente, mi sembrano gli stessi: la solitudine, il senso di smarrimento e con esso la voglia di reagire, di riuscire a concretizzare i propri desideri».

Studi a Roma (lettere), una città ampiamente raccontata nel tuo ultimo libro da una prospettiva calabra. Cosa cercavi e cosa riporti nella tua terra? «Mi sono trasferita a Roma circa cinque anni fa, per seguire più da vicino i miei libri ma non solo. Cercavo sicuramente esperienze diverse; cercavo di riuscire a fare qualcosa che in Calabria nessuno mi permetteva di fare; cercavo di agganciarmi a un sogno, il mio sogno, senza scendere a compromessi. All’inizio non è stato facile, ma neppure difficile direi. È stato nuovo, in una parola. Differente. O almeno nei primi tempi così mi sembrava: dopo qualche mese cominciai infatti a constatare quanto Roma potesse essere piena di calabresi, come ad ogni via e angolo e negozio fosse garantita sempre e comunque la loro presenza. Quindi da una parte, ancora oggi, Roma è una città che in questo senso mi fa sentire a casa, dall’altra invece mi ricorda che il concetto di casa è incredibilmente labile se non del tutto indefinibile, quasi oscuro. Roma è il crocicchio, l’osmosi perfetta fra la me che va via dalla Calabria e la me che invece ci ritorna; e ci ritorna sempre con un senso di tenerezza terribile».

Oltre alla lunga parte sui calabresi a Roma Malinati è, principalmente, un reportage letterario in alcuni casi limite della tua regione, dai fatti di Rosarno alla malasanità, svolto in prima persona: metaforicamente, sul male inevitabile e la negatività della nascita, una sorta di peccato originale. Perché questa chiave di lettura e l’idea di raccontare in prima persona? «Senz’altro il concetto di male è presente in Malinati. Eppure, per ogni storia che racconto, c’è l’idea di poter lottare contro di esso, di riscattarlo, di convertirlo in qualcosa che non sia male: nel primo capitolo quest’idea è rappresentata dalla tenacia degli africani, nel secondo da quella del giornalista Grimaldi, nel terzo dai ragazzi di Crotone che s’impegnano a non abbandonare la propria città… E così via nel resto del libro. Si tratta di storie tragicamente positive, nel senso che a partire da una tragedia si assiste a un tentativo di resurrezione: non facile, non scontato soprattutto, ma possibile. Più che sulla negatività di una nascita porrei l’accento sull’aver subito una cattività fin da quando si è nati. Non è la nascita in sé ad essere negativa, ma il contesto in cui essa si è sviluppata. Una chiave di lettura, quest’ultima, che si è imposta naturalmente mentre scrivevo Malinati, circa a metà stesura. Così non è successo invece per l’utilizzo della prima persona: fin dalla prima parola ho sentito l’esigenza di affidare solo alla mia voce quanto ho raccontato».

Hai detto in un’intervista: «È il momento di combattere attraverso le parole. Ritornare a parlare attraverso le parole». È anche questo il senso del tuo lavoro letterario? «Be’, sì. Direi proprio di sì. Viviamo in un momento in cui per comunicare viene usato tutto tranne che le parole, a partire dai comizi elettorali per finire alle pubblicità di vario tipo. Quasi mai c’è qualcosa di autenticamente vero, in tutto e per tutto, qualcosa che lasci una traccia indubitabile all’interno di noi, una traccia che ci assicuri che quella cosa è stata detta/scritta con la più sincera delle intenzioni, e col minor calcolo più o meno commerciale. Ritornare a parlare attraverso le parole vuol dire ritornare a dire la verità».

E ancora: «Mi pare di essere nata nell’epoca sbagliata. Il mondo letterario e editoriale di oggi è ossessionato dal marketing. La tv è una specie di totem. E poi l’università e la scuola sono state abbandonate completamente: non c’è nessuno stimolo alla lettura». Ergo: cambiare tempo o le cose? «Se vivessi in un altro tempo dovrei comunque scontrarmi con altri problemi, quindi impostare un discorso di anacronismo non credo abbia molto senso. Ergo, preferisco concentrarmi sulla mia contemporaneità e vedere cosa riesco a fare con quello che riesco a fare meglio, cioè scrivere».

L’editor della Bompiani, ha definito il tuo stile antimodernista, impasto di lingua letteraria e regionalismo, di fatto una neolingua, un’invenzione. Come è maturata sulla pagina? «Massimiliano Governi si riferiva, con quelle parole, al mio primo libro, La casa, un libro in cui effettivamente ho giocato con le potenzialità linguistiche del dialetto, e non solo calabrese. I colori, i suoni, le atmosfere che porta in sé, e che non potranno mai essere raggiunte dall’italiano nazionale, mi hanno sempre affascinato e continuano ancora ad affascinarmi. Ho iniziato a scrivere forse proprio perché mi sentivo trascinata da questi fiotti di lettere bellissime e sempre pertinenti alle situazioni che descrivevano. La casa è un po’ la summa di tutto questo mio grande interesse, interesse che a un dato momento si è non dico esaurito ma messo da parte da sé, per lasciar posto ad altro. Posso dire di aver vissuto questo “abbandono” in una maniera molto serena, intendendolo come un’evoluzione necessaria anche per poter giungere ad un numero più ampio di lettori. Nella mia staffetta di scrittrice è stato un po’ il passaggio del testimone verso un tipo di linguaggio diverso: più fluido, più puro, e che col tempo si affinerà sempre di più».

Sei già passata attraverso vari tra i maggiori premi nazionali, dal Campiello al Calvino, allo Strega. Che impressione ne hai ricavato e quali consigli daresti a un giovane autore per farsi notare da un editor? «La mia è una storia particolare, molto dura ma anche molto fortunata. Governi, il quale mi segue fin dalla mia prima pubblicazione, è una sorta di angelo della letteratura come anche della scrittura e per averlo incontrato ringrazio il cielo ogni mattina; è una gemma rara: fu proprio lui a leggere alcuni miei racconti che risultarono finalisti al premio Calvino, fu lui che in seguito a quella lettura mi contattò. Da quel momento è iniziata la mia avventura, e più mi guardo indietro più mi rendo conto di quanta caparbietà, quanta forza, quanto coraggio, quanta abnegazione quasi inconsapevole e quanta incoscienza anche, io abbia potuto metterci. Sono partita con nulla in mano, senza armi o strategie o altro, senza nessun equipaggiamento. Non avevo nessuna conoscenza in questo o in quell’altro ambiente, non avevo persone che potevano presentarmi a quello e poi a quell’altro e poi ancora a quell’altro. Non avevo la minima idea di cosa fosse una casa editrice o un editor stesso, molte cose non mi erano per nulla chiare eppure questo non m’importava. Pensavo a scrivere (e a leggere), coltivando dentro di me la certezza che prima o poi qualcosa o qualcuno sarebbe giunto per me: è un pensiero che mi ha sempre accompagnata e dal quale non mi sono mai fatta distogliere, anche, anzi soprattutto, quando avevo in mano tutti gli elementi per potermene allontanare, soprattutto quando incontravo gente che mi esortava ad abbandonare il mio progetto perché ritenuto troppo grande, irraggiungibile. Io non ho mollato. Con nulla in mano ma con parecchia fantasia in testa non ho mollato, andando avanti e ora ritrovandomi qui. A un giovane autore consiglierei prima di tutto questo: non mollare e saper attendere, non forzare nulla; e naturalmente leggere, leggere, leggere. Tutto il resto, compreso l’incontro con l’editor che saprà cambiargli la vita, verrà da sé».

All’ultimo Campiello ha vinto Carmine Abate, un autore reggino anche se vive in Trentino; tu vieni dal crotonese e dopo l’ottimo esordio della Casa anche Malinati ha avuto una bella accoglienza. Insomma, ci sono i prodromi di una rinascita calabrese, almeno a livello letterario? «Mi auguro di sì. La Calabria è stata a lungo dimenticata come luogo di produzione letteraria. Anche un grandissimo autore come Corrado Alvaro ha subito un vero e proprio processo di occultamento, pure ad opera degli stessi calabresi, come negli anni ho constatato. Spero che la Calabria possa essere rilanciata a livello letterario ma non con una letteratura fatta da calabresi per calabresi, bensì con storie in grado di giungere in qualsiasi luogo: la vera scommessa è, sarà, questa».