Tutti i fischi del festival

Una cosa è certa, il settimo festival Internazionale del film di Roma, diretto da Marco Müller, ha messo d’accordo tutti in fatto di “fischi”. Partito a rilento, fin dall’inizio, la rassegna guidata dall’ex numero uno di Venezia, arrivato a Roma tra mille polemiche e mal digerito da buona parte dell’ambiente cinematografico, ma anche da quello della stampa e in parte dalla politica stessa, è andata avanti per più di una settimana confermando il più triste risultato da sette anni a questa parte. Molti restano sbalorditi di fronte al risultato conseguito dal direttore, peggiore perfino di quello della Detassis, considerata, con buona pace di tutti, un direttore artistico mediocre. Annunciata in lungo e largo, la “restaurazione” del festival di Roma è stata, nei fatti, solo una maschera “posticcia” appiccicata sullo scheletro della rassegna.

Dalla scenografia di Dante Ferretti  (che avrebbe dovuto rendere omaggio ai grandi “fasti” del cinema romano è che altro non era se non quattro statue, per giunta brutte, di carta pesta), alla mancanza della sala Santa Cecilia per le prime dei film. E poi il crollo della vendita dei biglietti al pubblico. Certo, è aumentato, e di molto, il numero degli accrediti stampa e degli accrediti cultura, cioè professionisti e studenti del settore cinematografico (si badi la stampa pagava cinquanta euro ad accredito, mentre i costi dei cosiddetti “cultural” variavano dai sessanta euro – per gli studenti – fino ai cento per i professionisti). Ma questo non basta. Aiuta solo a “far cassa”. E non parliamo poi del risultato finale, e cioè dei film che si sono aggiudicati i vari premi. A vincere il Marco Aurelio d’oro è stato il film indipendente e rarefatto Marfa Girl del regista cult Larry Clark. Un film concentrato sull’adolescenza, sulle “fissazioni” del protagonista diviso tra droghe, alcool e sesso. Una storia trita e ritrita che tutto poteva meno che vincere un festival cinematografico, per quanto dietro la macchina da presa ci fosse proprio Clark. Ma la vera bomba su questo festival sono i due premi andati al film italiano, E la chiamano estate di Paolo Franchi che ha vinto sia il premio della giuria che quello alla miglior attrice andato a Isabella Ferrari. Un film, quello di Franchi, storia di una coppia che vive una problematica sessualità, che aveva messo d’accordo, giornalisti e pubblico, in quanto a fischi. Proprio la protagonista, Isabella Ferrari, è stata la più contestata con espressioni del tipo «fate schifo», «vergogna», cui l’attrice ha replicato invitando ad essere «più curiosi e vedere il film senza pregiudizi».

Ma non finisce qui. Come era previsto oltre alla mancanza generale di grandi star sul tappeto rosso, a mancare è stato, poi, anche Quentin Tarantino, che Müller aveva dato quasi per certo. «Non è dipeso da me – ha detto il direttore – non era pronto». E qui finisce la storia. Poi chi se ne frega se tu direttore l’avevi paventato per giorni, quasi come il fiore più bello che potevi appuntarti al bavero. Applausi incondizionati ,invece, per il premio speciale della giuria andato al bel film di Claudio Giovannesi Alì ha gli occhi azzurri (che ha ricevuto anche quello della miglior opera prima e seconda). Il lungometraggio in sala da qualche giorno, racconta una storia di integrazione al contrario di un ragazzo egiziano che vive ad Ostia. Il regista, 34 anni, diplomato al centro sperimentale di cinematografia, nel ricevere il premio ha chiesto al governo italiano: «di fare una legge che riconosca la cittadinanza italiana ai figli degli stranieri, perché questi sono la nostra ricchezza».

Alan e Gabriel Polsky, che per The motel life hanno ottenuto il premio del pubblico e quello della sceneggiatura, hanno parlato di un riconoscimento «del tutto particolare anche perché è il nostro primo film». Intanto, in vista del futuro, è proprio il primo cittadino di Roma, Gianni Alemanno, a proteggere Marco Müller. «Il direttore resterà al comando del festival, nonostante il triste risultato e il deludente andamento della rassegna. Penso che questo Festival sia stato un passo avanti anche rispetto alla scorse edizioni», ha detto Alemanno, aggiungendo: «Chiaramente è stata un’edizione di transizione, quindi con aspetti da perfezionare e migliorare, però, credo che il bilancio sia assolutamente positivo». A chi gli chiedeva sulla conferma di Marco Müller ha risposto: «Si va avanti con Müller e si andrà meglio. Lavoreremo tutto un anno e non solo per pochi mesi, credo che il festival di Roma è proiettato a essere una delle maggiori manifestazioni internazionali di questo genere». Parole che nessuno ricorderà domani, parole destinate a essere portate via dal vento, così come le critiche e le proteste. Il festival è finito e con lui è tramontato anche il sogno di vedere per la prima volta – dopo sette anni – una manifestazione di profonda qualità culturale. Un’occasione mancata, ma noi italiani, del resto, siamo maestri a conseguire le vittorie delle “occasioni mancate” e perdere, invece, le occasioni giuste.

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