Post fotografia

Cominciamo dal principio: Post fotografia è un nome di merda. Eppure, in mancanza di altro, rende bene l’idea di quanto sta accadendo. Il prefisso “post” sembra essere perfetto per dare un’identità a qualcosa che un’identità non ha, che cioè non è più la cosa che era e che nessuno ha la più vaga idea di quello che sarà. La storia insegna. Post impressionismo è terra ti mezzo fra impressionisti e avanguardie; post punk un calderone, prima che uno stile musicale, di gruppi usciti sfiancati dal 4/4 in salsa di tre accordi; post rock, poi, indica esattamente ciò che non siamo, ciò che non vogliamo. Chiamatelo, se volete, caos. Insomma, quando sentite post qualcosa, sappiate che da qualche parte c’è qualcuno che non ha la minima idea di ciò di cui sta parlando. E tutto questo è molto bello, sul serio. Non sapere dove si va, significa andare ovunque; ignorare cosa si è significa poter essere chiunque. Tutto questo rimane molto bello, però, se si accettano le regole del gioco: non fare previsioni azzardate e non definire a colpi di accetta (i grigi, ragazzi, i grigi). Joan Fontuberta, l’autore del libro La (foto)camera di Pandora, ha dalla sua che è un artista e il suo testo funziona per questo: non squadra, non definisce, non regola. (Non sarà certo un caso che ha vinto il premio nazionale per la saggistica del ministero della cultura spagnola)

La (foto)camera di Pandora sono pensieri che girano intorno alla linea d’ombra tra quello che conoscevamo (e non c’è più) e quello che abbiamo (e non conosciamo). In poche parole: la differenza fra la fotografia chimico analogica e fotografia digitale. Che messa così sembra poca roba, ma la questione è seria tanto da far dubitare all’autore che la fotografia contemporanea possa ancora chiamarsi così per quanto è lontana da quella di partenza. La differenza che subito salta all’occhio è la scomparsa di un supporto (prima c’era la carta ricordate?). Quella che può apparire come una maggiore comodità economica prima che pratica è in realtà la fine della fotografia come è sempre stata. Fotografare significava impressionare con la luce un materiale sensibile (la pellicola) che poi conservava l’impressione fino al momento dello sviluppo. Il rullino finito e riavvolto diventava un contenitore d’immagini latenti, cioè composizioni a metà fra il reale e i fantasmi. Il fotografo tramite trattamento chimico tirava fuori dalla pellicola i vari scatti in tonalità invertite, i negativi, che diventavano positivi grazie al trattamento in camera oscura. Ora la luce non impressiona più un materiale, ma scrive informazioni che vengono interpretate come colori e forme da chi guarda lo schermo dopo aver fatto lo scatto. Non esiste più un’immagine latente, non esiste più un negativo, né un supporto fisico: dietro uno scatto digitale ci sono solo numeri (lo sanno beni i francesi che chiamano digitale numerique) Se è possibile, però, la fotografia digitale rispetta (ancora di più di quella analogica) l’etimologia della parola, ovvero: scrivere con la luce.

Tutto questo comporta almeno due cambiamenti sostanziali. Uno, la velocità con la quale si passa dallo scatto all’immagine finale, due, la scomparsa di un supporto. L’insieme di questi fattori è sinonimo di una società ricoperta di immagini. Le fotografie girano velocemente ovunque grazie alla mancanza di una fisicità, sono continuamente aggiornate per merito della loro rapidità e chiunque, ora più che mai, è in grado di scattare una foto. Così è cambiata anche la funzione sociale della fotografia: se prima la fotografia serviva a ricordare un evento, ora l’evento non esiste se non c’è una foto, cioè la fotografia è un ingrediente fondamentale dell’evento stesso, imprescindibile. Lo scatto viene poi condiviso sui social network, per concludere il suo percorso ed essere dimenticato il giorno successivo sommerso da altre foto. Perché se la fotografia analogica è quella fotografia prima di tutto fisicamente reale, poi, fatta per durare, come segno della nostra presenza sul mondo, per non farci dimenticare nel giro di un paio di generazioni; ora lo scatto ha una scadenza giornaliera e una necessità sfrenata di essere condiviso come a richiedere, in un mondo dominato dalle immagini virtuali, il suo essere autentico, qualcuno che sotto commenti: “c’ero anche io”.