Abate, in laguna soffia il vento

C’era, nell’ovazione che ha accolto la vittoria di Carmine Abate dai palchi della Fenice, nel suo stupore di vincere alla cinquantesima edizione del Campiello, una gioia liberatoria. Un’emozione che poteva dirsi sincera, che neppure il mellifluo Bruno Vespa televisivo, la telegenica Anna Valle in abito rosso, Gigliola Cinquetti e l’ospite canterina Arisa smorzavano. Sprizzava gioia da ogni poro e pelo Abate, nello stringersi la coppa e rimirarsi la megatorta d’un dubbio color cacao al taglio del mezzo secolo per il premio voluto dalla Confindustria del Veneto. Gongola il professore calabrese di lingua arbresh, e gongola la Mondadori che con questa vittoria raddoppia, dopo lo Strega di Piperno, chiudendo in bellezza l’anno letterario. Ma quanta pacatezza in laguna, quanta soave assenza di recriminazioni tra i mancati vincenti: Francesca Melandri con la sua storia di carcere e d’amore Più in alto del mare (Rizzoli) e l’ottimo viaggio nella terra natìa di Marcello Fois con Tempo di mezzo (Einaudi), rispetto al parterre romano di villa Giulia.

Abate, crotonese di Carfizzi, paesino della comunità albanese dove è nato nel ‘54, insegna da un decennio in una scuola media di Trento ma non ha scordato le sue origini. Anzi, il suo ruolino di marcia letterario è zeppo di riferimenti alla Calabria (in)felix, dal Ballo tondo alla Festa del ritorno. E in questo risveglio letterario dell’antica Kroton – vedi la promessa Angela Bubba, natìa di Mesoraca, con Malinati – consegna alle stampe una vicenda che fa dell’amore per la Terra dei due mari – altro titolo di un suo libro – il veicolo di un messaggio al futuro, più che di uno sguardo al passato. Con qualche riferimento archeologico che per chi bazzica la dimenticata città di Pitagora non guasta mai. La collina del vento (264 pagine, 17,50 euro) racconta d’una famiglia dalle salde radici e dai rami ritorti come l’albero che campeggia sulla copertina, forse una delle poche querce da sughero scampate agli incendi che impazzano in ogni dove nelle estati calabresi.

La famiglia Arcuri è come una rondine albina – parole dello scrittore – e al suo pezzo di terra ci tiene, al punto da preservarla non solo dalle fiamme, ma dalle mire dei latifondisti durante il fascismo, dalle mene della mafia che ne vorrebbe fare un bel villaggio turistico negli anni della speculazione che ha reso le coste calabresi tanti luoghi del nulla, e dall’assalto delle pale eoliche dell’oggi. L’ultimo sgarro, tanto inutile quanto vistoso, a una terra dove la residua bellezza cede il passo a un diuturno orrore e i più cercano scampo nella fuga, più che nella difesa del territorio dai guasti di un’atavica scelleratezza e di una smemorata modernità. «La difesa della propria terra – chiosa Abate – è un grande tema del presente e del futuro. La storia di questo romanzo tocca temi universali. In tutta Italia ci sono terre ferite e bellissime, come la mia. Non ce ne siamo andati perché non ci piaceva, ma per la mancanza di lavoro. Alla base della nostra partenza c’è stata una ferita, poi trasformata in ricchezza. Sento l’urgenza di una scrittura etica, questo libro è un passaggio di testimone». Ben detto, professore. Chissà se oltre alle anime belle di Venezia, qualche altra anima buona della sua terra sarà disposta a raccoglierlo.