Nelle ultime settimane, per le strade di Roma, gli osservatori più attenti avranno notato qualcosa di strano: due gambe che escono da un cassonetto, un’amaca improvvisata tra due pali della luce con un uomo addormentato sopra, un braccio che spunta da un muro di periferia porgendo un mazzo di fiori, o ancora un manichino in strada che, inginocchiato, guarda languidamente la sua innamorata rinchiusa dietro una vetrina. Questi elementi stranianti che hanno contribuito ad un effervescente fermento capitolino, fatto di curiosità e meraviglia, sono stati creati e posizionati da Mark Jenkins, noto "urban artist" internazionale, che da febbraio di quest’anno ha sperimentato sulle strade romane ciò che da sempre crea in tutto il mondo. Un progetto, questo, culminato con la sua prima personale italiana, in mostra alla galleria Wunderkammern fino al 26 aprile. L’esposizione, realizzata in collaborazione con il Macro di Roma, si intitola “Living layers” e nasce dall’esigenza di entrare nella profondità del territorio per poterne decifrare il patrimonio immateriale, ovvero il "living heritage", definizione data dall’Unesco nel 2003, ovvero la ricchezza culturale dei popoli che non si limita a qualcosa di materiale, come possono essere ad esempio i monumenti o gli oggetti del passato rinvenuti, ma vita e tradizioni che gruppi e comunità hanno ereditato dai loro antenati e che continuano a trasmettere ai loro discendenti, spesso attraverso l’oralità, a prova di come questa eredità sia tanto importante quanto fragile.
Le opere di Mark Jenkins hanno cercato così di interpretare tutta una serie di espressioni, rappresentazioni e pratiche che fanno parte del patrimonio culturale delle persone. I suoi fantocci sono stati definiti dalla critica iper-realistici, ed è vero: trovarsi di fronte a uno di essi, specialmente in un contesto urbano, significa non capire immediatamente che si tratta di finzione, sentendosi smarriti per qualche istante. I personaggi di Jenkins vengono creati attraverso dei calchi realizzati con della pellicola da cucina. Le loro posizioni non sono casuali, ovviamente, ma si adattano sia al luogo in cui verranno successivamente posti, sia all’effetto finale che si vuole raggiungere. Troveremo così una ragazza che sta sdraiata bellamente su un cartellone pubblicitario, o un uomo con la testa infilata nel muro. Lo scopo è lo spiazzamento generato nei passanti, che divengono inconsapevolmente gli attori di un progetto più grande e innovativo, volto a far maturare una consapevolezza nei riguardi dell’arte contemporanea e della sua capacità di interpretare il mondo e la realtà circostanti. Le strade cittadine si trasformano in grandi palcoscenici in cui tutti hanno un ruolo fondamentale, soprattutto chi riesce a lasciarsi trascinare nel surreale mondo di Jenkins.
L’esposizione in galleria è, ovviamente, differente da ciò che viene offerto in strada, ma rende bene l’idea di ciò che è il lavoro di questo sorprendente artista di Washington, nato nel 1970. Al suo interno le opere sono tra le più disparate: da piedi e mani che sfondano letteralmente la tela, a fantocci che spuntano dal muro o rimangono inquietantemente nell’ombra dei sotterranei dello spazio espositivo, a opere fatte di spazzatura, simbolo dell’uomo soffocato dai suoi stessi rifiuti. Nella poetica di Jenkins, infatti, l’indagine sulla condizione dell’essere umano è essenziale. Il disagio e l’emarginazione sono delle tematiche che si percepiscono tra le corde della sua arte. L’alienato ha un ruolo fondante, così avvolto nei suoi panni grigi e anonimi mentre si confonde prepotentemente in una folla fin troppo omologata, succube dell’indifferenziazione sociale e della solitudine tipica delle grandi città in cui tali strutture vengono collocate. Mark Jenkins ha esposto in tutto il mondo: da New York a Barcellona, da Tokyo a Mosca. Ha lavorato con la Carmichael gallery di Los Angeles e con la Lazarides gallery di Londra, ed ha collaborato sia con Greenpeace nel 2008 che con il Festival les grandes Traversèes di Bordeaux nel 2010.
Durante l’opening della mostra è stato presentato, inoltre, il primo catalogo di Jenkins, “The urban theater” firmato dall’artista stesso.
“Living layers” è un progetto più ampio della galleria Wunderkammern, proiettato in più anni, che intende attivare letture del territorio e del suo "Living heritage" attraverso l’arte contemporanea. Iniziato nel 2010 in collaborazione con il Macro di Roma con i giovani Alexander Hamilton Auriema e Valentina Vetturi, coordinati da Cesare Pietroiusti, "Living layers" coinvolge artisti provenienti da ambiti di ricerca diversificati, proponendo interazioni trasversali e sempre inedite con lo spazio urbano.
Fino al 26 aprile 2012
Wunderkammern, via Gabrio Serbelloni 124, Roma
www.wunderkammern.net