Meccanismi a nudo

«Noi spaziali trasmettiamo, per la prima volta nel mondo, attraverso la televisione, le nostre nuove forme d’arte basate sul concetto di spazio […]. La televisione è per noi un mezzo che attendevamo come integrativo dei nostri concetti. […] Noi spaziali ci sentiamo gli artisti di oggi, poiché le conquiste della tecnica sono oramai al servizio dell’arte che noi professiamo». Così recitava l’incipit del primo Manifesto per la televisione firmato, nel 1952, da Lucio Fontana e dagli altri membri del gruppo spazialista. Sessant’anni fa, la televisione veniva intesa come un potenziamento tecnico e comunicativo per l’arte, e non solo; il nuovo strumento a disposizione per lo sviluppo delle teorie che stavano alla base delle prime forme di arte concettuale. Un ruolo che, oggi, è ad appannaggio assoluto di internet. In questo senso, la televisione ha fallito, tramutandosi velocemente nel luogo mediatico in cui le verità vengono celate, o, nella migliore delle ipotesi, pesantemente interpretate.

L’arte, però, come dimostra egregiamente la mostra "Press play", recentemente inaugurata alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino, non deve snobisticamente disinteressarsi del mezzo televisivo, o di qualsiasi altro medium comunicativo. Il suo compito è quello di porsi come coscienza critica capace di analizzare e mettere a nudo i meccanismi contorti del piccolo schermo e della carta stampata, dando vita a opere sorprendenti, come nel caso delle oltre 150 prime pagine di quotidiani del 12 settembre 2001, raggruppate in un’installazione da Hans-peter Fieldmann (Dusseldorf, 1941), che sottolineano i diversi modi in cui la tragedia delle Torri gemelle è stata affrontata in ogni parte del mondo.

Quel che viene sottolineato con più forza dai lavori in mostra, riallacciandosi alle riflessioni del filosofo Marshall McLuhan, è che i notiziari, più ancora dell’arte, sono degli artefatti. L’artista indiana Beni Abidi (Karachi, 1971), con il doppio video “The news” (2000), mostra come uno stesso fatto possa essere raccontato in due modi completamente diversi da una presentatrice televisiva indiana e da una pakistana; mentre Pierre Huyghe (Parigi, 1962), con “The third memory” ricostruisce la vicenda di John Wojtowicz, che nel 1972 fu autore di una rapina un una banca di Brooklyn, trasformatasi in un luogo di sequestro ripreso in diretta dai media. Per assurdo, il lungo video in cui lo stesso Wojtowicz narra la sua storia fin nei minimi particolari, finisce per diventare la terza versione di un fatto che, nel momento del suo accadimento, aveva scatenato un vero e proprio circo mediatico e, due anni dopo, era stato trasformato in un film di successo (Quel pomeriggio di un giorno da cani, Sydney Lumet, 1975), con Al Pacino nel ruolo del protagonista.

L’arte, come già aveva previsto Théodore Gericault, attraverso il dipinto Zattera della Medusa (1819), deve ergersi a portavoce di quelle verità, anche le più atroci, che vengono nascoste o edulcorate dai mezzi di informazione. Un monito che gli artisti in mostra hanno fatto proprio, interpretandolo, nella maggior parte dei casi, con intelligenza e profondità