“Four triptychs” è la personale di Massimo Giannoni, a cura di Marco Tonelli, allo spazio Fontana del Palazzo delle esposizioni di Roma. Ordita nel rapporto fra storia contemporanea e memoria collettiva, la mostra consiste in quattro trittici di grandi dimensioni. Perché l’uso del trittico? Ne parla Tonelli: «Il trittico diventa una forma inconscia di affermazione d’esistenza, di resistenza, di muro non del pianto ma della realtà, di una accanita difesa dalla contemporaneità fugace ma anche in favore della sua vitalità pervasiva. E questo opera una riflessione, agita e praticata con la pittura, della nostra epoca e della nostra estetica».
La volontà di rendere il linguaggio classico della pittura ancora attuale parte dall’uso della tecnica per aprire contemporaneamente al significato. Muovendo dalla tecnica grumi di materia pittorica in rilievo si alternano a scavi nella stessa materia che creano personaggi con le proprie ombre in maniera magistrale, il tutto attraverso l’utilizzo di spatole di varie dimensioni, dalle più piccole alle più grandi. I quattro trittici poi riattualizzano luoghi che conservano una memoria e sono presenti nell’attualità allo stesso tempo.
Libreria, per esempio, raffigura la vecchia e storica libreria Seeber di Firenze che non esiste più: precisione del tratto e pennellate materiche danno il quadro dell’ambiente. In Muro del pianto il piazzale di fronte al muro è un grande luogo luminoso dove figure e ombre si identificano nel tempo. “Stock exchange” rappresenta invece la borsa di New York come se fosse una piazza cittadina. In Piazza lo spazio di fronte al Luovre vive di personaggi che si stagliano nel silenzio. Libreria e “Stock exchange” rappresentano due luoghi chiusi e la tecnica mette in rilievo parti di materia che fuoriesce, mentre Muro del pianto e Piazza convogliano la luce esterna, così nel colore, più piatto, vengono scavate le figure.
Avvicinandosi ai dipinti appare la materia primordiale del colore, mentre allontanandosi si delineano le fattezze del quadro. Tutti i lavori sono del 2011, a olio su tela. Tonelli conclude così il suo testo critico sull’artista: «Per anni Giannoni sembra aver avuto non tanto orrore del vuoto ma dell’incorporeo, fino a ricoprire centimetro per centimetro le sue tele, a murare colore su colore. Ora lascia spazi incorporei sulla pelle nuda della tela, spazi non di dubbi o impossibilità a finire, ma di luce non dipinta: non per svelare segreti, ma per fare campo, per creare respiro, per rilanciare la forza della presenza a fronte di una assenza. Per riproporre, sottilmente, una sua passione per la contraddizione e la polarità, e per riaffermare il valore anche mentale della pittura, al di là di quello fisico, o meglio prima di quello fisico, sua naturale ed inevitabile controparte. In queste zone di passaggio e di solidità, di carne e di scheletro, di colore e di tela nuda, Massimo Giannoni vive e lascia vivere la contemporaneità dell’opera, attraverso trasalimenti percettivi che, non bastassero le irregolarità pittoriche e plastiche a ricordarcelo, sono lì a dirci della differenza tra vivere e formare, esperienza e rappresentazione».
Fino 26 febbraio
Palazo delle esposizioni
via Milano 13, Roma
Info: 0639967500; www.palazzoesposizioni.it