Coccorese, scatti dal paese delle meraviglie

Tra abbondanza e ricercatezza, è un mondo denso e sempre sul punto di esplodere in tridimensionalità quello che nasce dagli scatti di Chiara Coccorese, giovanissima promessa dell’arte nostrana, recentemente ammirata a Torino. Una creatività corposa e comunicativa, accresciuta dalla presenza continua di elementi “pop” e rimandi alla tradizione: due estremi che ben si amalgamano negli scatti iperrealisti e colorati della fotografa che passa con scioltezza dal ritrarre persone reali e piccoli soggetti in miniatura. «Non c’è più nulla da fotografare. Se vuoi fotografare qualcosa di nuovo, devi prima crearlo», diceva il fotografo giocoliere Vik Muniz. Questa affermazione ben si adatta al lavoro della Coccorese, tanto da essere ripresa dal critico Nicola Davide Angerame proprio per definire l’opera della giovane napoletana. Proprio in questo mondo alternativo, che ha però radici ben piantate nella quotidianità e nella tradizione, nato come un’appendice del mondo reale e non come un’opposizione a esso, la Coccorese esprime la complessità, e a volte la vacuità, dei rimandi contemporanei da cui siamo continuamente bombardati attraverso una patina ludica che volontariamente non offusca del tutto la serietà del messaggio proposto.

Crei universi alternativi popolati da personaggi fiabeschi e infantili, la tua arte è un rifugio?

«Più che un rifugio rappresenta un ricordo. Un’immagine, una storia, una sensazione provata da bambina; ma anche un sogno, un pensiero, una riflessione su certi aspetti della realtà. È come prendere costantemente appunti da ciò che mi passa per la testa e tradurli in un’immagine concreta, visibile a tutti. Non si tratta di un mondo dove rifugiarsi ma di un universo parallelo altrettanto vero e importante che cerco di mettere in relazione con la realtà. I sogni, l’inconscio, i pensieri sono di primaria importanza se si vuole riflettere su sé stessi. Tradurle in immagini è una sorta di ricerca nella mia testa e negli archetipi, nell’inconscio collettivo del mondo che mi circonda».

Il fatto di essere donna apporta una sensibilità diversa ai tuoi lavori?

«No, assolutamente. Non credo che le donne siano sensibili in modo diverso o in misura maggiore rispetto agli uomini. Magari la società impone all’uomo una maschera più severa in tal senso, la donna è più libera di esprimere un determinato tipo di sensibilità, ma credo sia solo un fattore culturale».

Frequenti sono i riferimenti alla tradizione pittorica, come è avvenuto il passaggio dalla pittura alla fotografia? Quali gli artisti che ammiri?

«Studio pittura praticamente da sempre. Ho passato molti anni ad approfondire le tecniche pittoriche tradizionali facendo copie d’autore e ho imparato moltissimo, specialmente da Caravaggio, Bosch, Velázquez, Arcimboldo. Nei miei lavori pittorici tendevo molto al surrealismo (adoro Dalì, Magritte, Kalho) e partivo spesso da fotografie che scattavo a parenti e amici. Da lì il passaggio è stato naturale: ho pensato di eliminare il passaggio della “copia” da foto a dipinto e fare della fotografia stessa il lavoro finale. Ciò mi ha permesso di concentrarmi maggiormente sull’idea e sul prodotto finale, senza dispersioni di energia e, a volte, di entusiasmo».

Artisticamente e tecnicamente, come si sviluppa un tuo lavoro?

«Generalmente le idee saltano fuori da sole, raramente le cerco, e spesso provengono da sogni o da semplici intuizioni. Non ci lavoro subito, di solito prendo un appunto o faccio un disegno veloce, poi lascio passare del tempo, settimane o anche mesi, per far maturare l’idea e per valutarne la forza. Quando sento di essere pronta inizio a lavorarci: nel frattempo ho avuto modo di meditare sul tipo di “set” e sulla scelta di usare o meno postproduzione, quindi solitamente ho le idee molto chiare. Mi è anche capitato di avere l’idea e di realizzarla nei giorni successivi ma in genere ciò ha portato a risultati poco soddisfacenti: sono i casi di tutte quelle fotografie che riposano chiuse nel mio computer, in attesa che le idee siano davvero pronte per essere riprese. La tecnica vera e propria invece varia molto a seconda del tipo di lavoro. A volte si tratta di scenografie in miniatura poi fotografate, altre volte invece assemblo i vari scatti digitalmente in una sorta di “photocollage”».

Come prepari i tuoi allestimenti fotografici?

«Anche qui dipende un po’ dal tipo di lavoro, ogni idea ha le sue esigenze. Per i “set” in miniatura ho un tavolo grande in studio sul quale preparo il tutto. Dipingo il fondale per il cielo su un cartoncino e lo incollo alla parete, poi comincio ad assemblare i vari oggetti. Quando ho bisogno di effetti di luce particolari mi avvalgo del tavolo da “still life”, che, grazie alla sua semi trasparenza, mi permette di ottenere dei cieli luminosi con un interessante gradiente tonale, semplicemente applicando una luce dal basso. Per gli interni invece uso pareti di polistirolo sulle quali applico la carta da parati che a volte realizzo personalmente, piccole finestre in legno e mobiletti “doll house”. La grande sfida è quando devo rappresentare l’acqua. I personaggi sono invece realizzati in plastilina, gli abiti possono essere di stoffa, cuciti addosso, oppure di cibo. Quando invece devo fotografare persone mi avvalgo di fogli di polistirolo sui quali applico carte, cornici decorative in gesso, colori e tutti gli oggetti che mi servono. Fondamentali sono le stoffe, che uso sia per costruire i vestiti sia per ottenere panneggi di tende o altro».

Il tuo approccio alla postproduzione?
«Molto libero. Spesso quando si pensa a Photoshop subito lo si associa a un intervento di tipo migliorativo, tendente a colmare lacune di tecnica fotografica, anziché creativo. All’estero fortunatamente la situazione è molto diversa e gli artisti sono liberi di utilizzare la postproduzione come una vera e propria tavolozza contemporanea senza quel velo di superficialità con il quale i colleghi italiani vengono giudicati ogni volta che ci si allontana da una tecnica di tipo tradizionale. Basti pensare che fino a pochissimo tempo fa la fotografia su pellicola veniva considerata qualitativamente più elevata rispetto a quella digitale solo perché più antica. E a tutt’oggi, inconsciamente, la fotografia in bianco e nero appare sempre un po’ più artistica rispetto a quella a colori. In un clima del genere, quindi, è ovvio che l’intervento di un programma di postproduzione risulti come una violenza nei confronti della sacralità della fotografia immacolata. Se ogni procedimento artistico venisse considerato semplicemente come un percorso per arrivare a un obiettivo, ci si renderebbe conto che non esistono mezzi superiori o inferiori ma semplicemente risultati buoni o cattivi. La qualità del mezzo è dettata esclusivamente da ciò. Personalmente mi ritengo fortunata perché il mio linguaggio artistico, anche quando mi avvalgo della grafica computerizzata, richiama un gusto molto pittorico e quindi, in qualche modo, ricollegabile a una tradizione».

Cosa ne pensi dei generi fotografici così lontani dal tuo modo di fotografare?

«Sicuramente molti fotografi raggiungono alti livelli di espressione con altri generi. Non metto in dubbio il valore di questo tipo di visione, semplicemente è un linguaggio che non mi appartiene: per me la realtà concreta è insufficiente perché cerco altro, qualcosa di più interiore e universale al tempo stesso, qualcosa di invisibile».

La tua città, Napoli, sembra vivere un momento particolarmente felice per l’arte contemporanea, soprattutto per gli spazi privati. Come vivi quest’atmosfera?

«Napoli sta diventando un grande punto di riferimento per l’arte contemporanea. È una città che ha una tradizione fortissima e una storia importante, camminando per le sue strade senti il passato respirare. D’altro canto però il popolo napoletano è viaggiatore, ha occhi attenti e un’intelligenza aperta ai nuovi linguaggi dell’arte contemporanea. Questa fioritura è la conseguenza naturale della sensibilità artistica partenopea: non mi sorprende e mi entusiasma moltissimo».

Come giudichi il panorama artistico in Italia rispetto a quello estero.

«Trovo che l’arte nostrana comunichi molto con quella estera. La mia impressione, però, è che qui si faccia ancora fatica a liberarsi di un certo tipo di corrente informale che satura l’arte italiana ormai dal dopoguerra, senza rendersi conto di quanto questo linguaggio faccia parte di una generazione passata. Si cerca ancora troppo l’originalità a ogni costo, trascurando spesso un più profondo ritrovamento di contenuti, di espressione e di comunicazione del quale i giovani artisti hanno esigenza. All’estero la situazione credo sia più aperta: c’è spazio un po’ per tutto, ad esempio anche per un rinnovamento del linguaggio figurativo che invece in Italia fatica ad avanzare».

L’ARTISTA

Diplomata all’accademia di Belle arti di Napoli

Chiara Coccorese (Napoli, 2 agosto 1982) si è diplomata all’accademia di Belle arti di Napoli nel 2005 e ha conseguito il master in fotografia professionale alla scuola di Andrea Scala, sempre a Napoli. Dopo la pittura, grazie alla quale sperimenta accanto al colore a olio gli effetti dei più svariati materiali, comincia ad appassionarsi alla fotografia che, gradualmente, diventa protagonista dei suoi lavori. La sua ricerca si orienta verso la creazione di piccole scenografie che riproducono paesaggi fantastici: i fondali sono dipinti con nuvole d’ovatta, i personaggi sono pupazzi in plastilina mentre verdura, tappeti, mobiletti per le bambole e i più svariati oggetti di uso quotidiano completano il mini set. Negli ultimi lavori la creazione e la fotografia di scenografie si arricchisce con un tipo di elaborazione digitale, una sorta di “photocollage”, grazie alla quale riesce a inserire in ambienti fantastici persone vere e oggetti in scala minore rispetto alla realtà. Info: www.chiaracoccorese.com.

LE MOSTRE

La personale a Napoli, la collettiva a Milano

ll progetto espositivo presentato alla galleria Dino Morra dal titolo “Ancien régime”, a cura di Chiara Pirozzi, prevede l’esposizione di un ciclo di fotografie, presentato per la prima volta nella sua forma integrale, dedicato al tema delle carte da gioco. Le immagini realizzate dalla Coccorese sono ricche di richiami provenienti dalla storia, dall’arte moderna e contemporanea e dalle fiabe classiche. Fino al 25 gennaio 2012. Dino Morra arte contemporanea, via Carlo Poerio 18, Napoli. Info: www.dinomorraartecontemporanea.it. A Milano, invece, l’artista fa parte della collettiva “White Xmas”, curata da Nicola Davide Angerame, alla galleria White labs. Dal primo dicembre al 20 gennaio 2012. Galleria White labs, via Gerolamo Tiraboschi 2, Milano. Info: www.whitelabs.it.

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