Un talento sbocciato senza premeditazione caratterizza l’approccio al mondo dell’arte di Gabriele Arruzzo, ironico compositore d’immagini a cui piace giocare con la storia e i simboli della tradizione. «Non so quando è successo ma mi ci sono buttato a capofitto», puntualizza Arruzzo in merito all’impatto della sua vita con l’arte. Le sue sono opere di grandi dimensioni, graffiate con smalto e acrilico su tela: sarcastiche raffigurazioni che miscelano elementi familiari e rassicuranti con altri sfumatamente perturbanti per «cercare di portare la vita stessa all’interno dell’opera». Attingendo dal passato della storia collettiva, raffigura un presente che di avanguardistico sembra avere poco o nulla.
Come hai mosso i primi passi nell’arte?
«I primi passi li ho mossi cercando di maturare una consapevolezza del mio lavoro che lo rendesse indipendente da quello di altri che mi avevano influenzato. Poi il percorso è stato canonico: le prime mostre, la conoscenza con alcuni critici, i rapporti con le gallerie».
Come nasce e cresce la tua opera?
«Nasce dall’insoddisfazione e dalla presunzione di poter realizzare qualcosa che prima non c’era. Da un’idea innanzitutto. Poi questa idea deve diventare come uno specchio, una sorta di autoritratto sotto forma di dipinto, qualcosa che fermi il tempo. Con questo atteggiamento m’immergo nella tradizione figurativa».
Un tratto deciso per scenari sospesi tra storia e fantasia, come scegli le ambientazioni?
«Non lo so, dipende. La vecchia domanda: “Che cos’è un quadro?” mi porta a fare delle considerazioni sul passato e la storia dell’arte. E siccome, per fortuna o purtroppo sono italiano, questa domanda mi porta a confrontarmi con la storia della figurazione. La pittura oggi non può più essere imitazione della vita, per quello ci sono altre pratiche artistiche più adatte del colore sulla tela. Una volta accesa la lampadina attingo da un archivio d’immagini all’interno del mio computer. È una gigantesca cartella molto eterogenea dove inserisco, da più di dieci anni, tutto quello che potrebbe tornarmi utile. Quando poi sono sicuro che quello che ho fatto è “cosa buona e giusta” passo dalla fredda immaterialità dello schermo del mio Mac alla calda presenza della tela. Dalla progettazione in casa alla realizzazione in studio».
L’elemento fiabesco è importante nell’architettura delle tue atmosfere, dove nasce l’ispirazione?
«Quando il mo lavoro ha cominciato ad avere un po’ di visibilità sono stato etichettato come quello che fa le favole crudeli. Colpa di alcuni critici che hanno dato una visione parziale e distorta del mio lavoro e colpa mia che mi sono fidato di loro. A me l’elemento fiabesco non interessa poi tanto. Interessa, invece, fare leva sulle sensazioni che l’osservatore può provare davanti a un mio quadro. Gli elementi che uso sono funzionali a una visione più ampia del lavoro, quindi se mi interessa fare leva su un “territorio inconscio condiviso” i richiami fiabeschi possono risultare funzionali. Il mio è un lavoro per gli adulti, non per i bambini».
La storia ha una sua valenza visiva?
«Dipende. Io ho la mia, l’osservatore la sua. A me interessa ciò che sta fuori dal quadro. Generalmente i miei lavori hanno quasi sempre due titoli: un “senza titolo” per non dare una chiave di lettura troppo specifica all’osservatore e un titolo tra parentesi che serve a me per catalogarli o ricordarmi qualcosa che chi osserva non sempre è tenuto a sapere».
Quale altro mezzo ti affascina?
«I mezzi sono, appunto, mezzi. Dipende l’uso che se ne fa. Quando il risultato è interessante, non faccio distinzione. Forse la pittura è quello che mi interessa meno ma quello che mi emoziona di più da un punto di vista “erotico”».
Nelle tue opere abbondano simboli, le metafore restituiscono con più forza il messaggio?
«C’è sempre un messaggio rivolto a me, non so se c’è n’è uno rivolto all’osservatore. Ognuno vede quello che vuole nella misura del suo interesse. Spesso i simboli e le citazioni mi servono per stabilire un parallelo tra quello che sto facendo e quello che altri hanno fatto prima di me, per sentirmi a mio agio nel letto del fiume della tradizione. In questo sono all’antica, sono un reazionario!».
Prima dell’estate hai esposto a Torino delle opere per celebrare a tuo modo l’unità d’Italia. Come hai pensato questa personale?
«Il titolo della mostra era L’affossamento. Nella lingua italiana non esiste un contrario di Risorgimento. Mi sembrava che il termine affossamento fosse il termine più indicato. Se il risorgere richiama l’idea di una nuova vita, del sole e della luce, l’affossamento dà più l’idea della tomba e del buio. Questo perché tutta la mostra si articolava sulla contraddittorietà della percezione di una Italia unita, e quindi dello spirito stesso degli italiani. Chi siamo veramente? Questa la domanda che mi ponevo quando Alberto Peola mi ha proposto la personale. Quale miglior posto se non Torino per riflettere su questo? Penso che le tante celebrazioni per il centocinquantenario abbiano rafforzato lo spirito nazionale di un paese che è unito da troppo poco tempo. Quando ho cominciato a pensare a questa mostra, si discuteva violentemente sul fare o non fare una festa del Tricolore. Al contempo leggevo le notizie sugli scandali che hanno coinvolto il presidente del Consiglio: la punta di un “iceberg” dove s’incrociano la politica, il sesso, il potere, la televisione. Così mentre mi esaltavo sempre di più delle gloriose pagine del nostro Risorgimento che ero tornato a studiare, vedevo il presente di un paese dove il senso della vergogna e dell’etica s’è completamente perso. Penso che la vergogna sia stato un sentimento molto più condiviso di quello del rinnovato spirito d’unità nazionale. Il pensare alla vergogna come vera coscienza condivisa m’ha poi fatto scegliere il titolo della mostra. Un anti festeggiamento. Un funerale, forse».
Sei nato a Roma ma da anni risiedi e lavori a Pesaro. Vivere lontano da un importante centro artistico, come la capitale aspira ad essere, può essere un vantaggio?
«Per come sono fatto io, lo è assolutamente».
LE MOSTRE
Dopo Tolentino al Mart di Rovereto e in Germania
Oltre alla collettiva Tra il sublime e l’idiota che si è tenuta a Tolentino, curata da Luca Beatrice, Arruzzo ha partecipato alla mostra Percorsi riscoperti dell’arte italiana Vaf Stiftung 1947-2010, al Mart di Rovereto a cura di Gabriella Belli e Daniela Ferrari. La raccolta di opere della Vaf Stiftung è nata dalla passione per l’arte italiana del collezionista tedesco Volker W. Feierabend che negli anni ha promosso il lavoro degli artisti più giovani con la creazione del premio internazionale Agenore Fabbri. Parte della mostra è stata dedicata proprio ai giovani della collezione, tra i quali spicca Arruzzo, esposti in dialogo con la generazione attiva negli anni Ottanta. Dal 22 ottobre l’artista prende parte alla collettiva allo Zkm, museo d’arte contemporanea di Karlsruhe in Germania, dal titolo “Hirshfaktor. Die kust des zitierens” curata dal direttore del museo Andreas F. Beitin. Info: http://on1.zkm.de/zkm/e/about. A dicembre una sua piccola antologica sarà allestita all’interno della Casa natale di Raffaello e Bottega di Giovanni Santi a Urbino.