«Ho sempre amato le immagini, il potere intrinseco che hanno. Ho trovato nella fotografia la mia vita perché non mi piaceva quello che vedevo intorno, non mi piaceva il modo in cui gli altri ci facevano conoscere il mondo». Ladro di sguardi, di drammi collettivi e individuali, fotografo di strada, testimone di dolori, di sorrisi, di violenza e rabbia, megafono dei senza nome, dei senza voce, dei senza volto, Tano D’Amico ha immortalato alcuni dei momenti salienti la storia del nostro paese. Siciliano di nascita – Filicudi, 29 luglio 1942 – milanese d’adozione e romano in vecchiaia, il fotografo, a cavallo degli anni Settanta, ha catturato, rigorosamente in bianco e nero e con il 35 millimetri, le agitazioni studentesche, il movimento femminista, la Torino degli anni Ottanta, i lavoratori della Fiat, l’omicidio di Giorgiana Masi e poi ancora gli zingari, i primi rom della capitale, la povertà e la miseria in un modo unico e singolare eppure stranamente vicino allo stile di Rossellini o Pasolini. Oggi una buona parte della sua produzione trova spazio a Roma nella galleria S.t. senza titolo che, in occasione del festival internazionale di Fotografia, ospita fino al 20 novembre la mostra sul fotografo siciliano, intitolata Disordini. Un’esposizione che raccoglie e sintetizza più di quarant’anni di storia, combinando gli scatti dei disordini veri e propri, come i cortei e le occupazioni, alle immagini che meglio testimoniano la vocazione del fotografo a ritrarre le vibrazioni e gli urti del reale. Ad accompagnare l’apertura della mostra anche la presentazione del libro edito da “Postcart” che raccoglie settantré articoli e altrettante foto con l’obiettivo di tracciare un profilo organico dell’autore siciliano. Intitolato Di che cosa sono fatti i ricordi, tempo e luce di un fotografo di strada, il libro restituisce attraverso le immagini una riflessione personale sul segreto tra la fotografia e la testimonianza. Memoria e tempo, luci e ombre capaci di cogliere la bellezza umana nel disagio sociale.
D’Amico, una mostra che raccoglie alcuni dei suoi scatti più importanti e un libro che ricostruisce, anch’esso, la sua storia. Il titolo è emblematico, ma per lei di che cosa sono fatti i ricordi di un uomo?
«Ci ho pensato per tutta la vita e mi sono accorto che ho sempre avuto in tasca i cosiddetti rulli. Questi parlano di luce e di tempo e i ricordi sono fatti di luce e tempo proprio come la fotografia. Per cui non è fuori luogo accostare la memoria all’immagine impressa su carta. Le fotografie che diventano ricordo sono quelle in cui il tempo e la luce non vanno più d’accordo, per esempio quelle in cui il tempo finisce di colpo. Tutti abbiamo incontrato persone, avuto amori, vissuto situazioni che, però, sono finite di colpo a causa di una violenza, di un lutto, di una fine o semplicemente di una scomparsa. Cosa succede allora? Accade che il tempo finisce e la luce continua a esistere. Si dividono, lacerando l’unione che ne giustificava l’esistenza. Per un po’ la luce si perde ma poi torna indietro per aggrapparsi a quel tempo mozzato intorno al quale si avvolge come un filo in un ricamo e si aggroviglia e ingarbuglia in un modo che rende la vita vivibile, perché ci permette di non dimenticare».
L’apice della sua carriera coincide con un periodo storico carico di eventi da raccontare.
«Anche questa è un’epoca in cui c’è molto da raccontare. Non ho vissuto, ad esempio, il periodo della repubblica di Weimar, però mi torna sempre in mente per le foto che hanno fatto altri; magari scatti di un camerino di teatro, di funerali di sconosciuti, morti ammazzati per strada che hanno, in un certo senso, sviluppato la mia attenzione e indirizzato il mio lavoro. Ho cercato nella mia vita di rispondere a questa domanda: questa è l’unica vita possibile? Secondo me no. Ci può essere una vita migliore, un’esistenza individuale e sociale scevra dalle strumentalizzazioni. Le fotografie, è inutile dir di no, servono anche per manipolare e strumentalizzare pensieri, parole e azioni. Prendiamo gli scatti sulla Comune di Parigi nelle quali si vedono ritratti stupendi fatti tra amici e dalle quali viene fuori un modo di guardarsi puro».
Che importanza ha, allora, per lei la fotografia?
«La fotografia l’ho amata e l’amo ancora però ha un peccato originale e terribile che non si può cancellare e che riaffiora sempre anche nei quotidiani di oggi che riportano, ad esempio, i fatti di sabato, e che sottolineano la missione originale della fotografia. È nata per schedare e controllare. Chi oggi fa questo mestiere è portato anche a strofinarsi, a lisciare il pelo al “potere” con il suo lavoro».
Secondo lei le foto che hanno immortalato la manifestazione degli “indignados”, sabato 15 ottobre nella capitale, hanno saputo raccontare gli scontri o, invece, rientrano nel fotogiornalismo “di servizio”?
«La città è fatta di quei giovani che hanno preso parte alla manifestazione ma le fotografie pubblicate non hanno fatto vedere quei giovani, né cosa hanno vissuto e soprattutto come. Si parla di violenza quando c’è il violentato che si rivolta, in riferimento a quanto è stato pubblicato basta vedere il Corriere della Sera cosa ha fatto. Ha messo in pagina delle fotografie che hanno reso dei mostri quei ragazzi scesi in piazza, quasi dei delinquenti privi di qualsiasi intelligenza. Non è così che si fa la cronaca, soprattutto fotografica. Quest’anno ricorre il centocinquantesimo anniversario dell’unità d’Italia ma nessuno si chiede mai da dove veniamo e soprattutto come è stata fatta la storia. Il nostro è uno stato costruito in parte con l’inganno, siamo figli della violenza, del genocidio e poi facciamo il pianto greco sui sampietrini tirati contro le camionette della polizia. Lo trovo veramente contraddittorio. Passeggiando per strada, poi, domenica ho visto delle vetrine di alcune banche sfondate. Non mi risulta che nella storia ci sia un bel rapporto tra banche e clienti. Le banche hanno ingannato i clienti con delle gigantesche truffe, vedesi Parmalat o il crac Cirio o prendere atto solo di come oggi la nostra sia una realtà perennemente in vendita. Di fronte alla proliferazione di carte, di bancomat, sembra che la nostra esistenza possa essere vissuta solo da chi la può comperare attimo per attimo. Tutto questo può generare delle disaffezioni. Non mi scandalizzo per i danni sulle cose quello che è veramente grave sono i danni sulle persone».
Per la fotografia, giornalisticamente parlando, è più importante documentare o suscitare un sentimento?
«Io non ho mai creduto ai documenti, li ho sempre visti con diffidenza, sono sempre delle cose per cui si muore. Un’immagine, e rubo delle parole ai pittori bizantini, che vale solo per il visibile che racconta è ben poca cosa, un’immagine vale per l’invisibile che c’è in essa».
La sua è una tecnica fatta di contrasti, bianco e nero, larghe panoramiche e dettagliati primi campi. Nonostante la drammaticità che conservano in molte appaiono delle foto belle, accattivanti. Oltre che un fotoreporter è anche un esteta?
«Mi sforzo di far vedere sempre il contesto, creare la foto d’insieme perché isolando un istante si può criminalizzare, accusare qualcuno o qualcosa, imprimere il proprio dissenso o la propria condivisione. Però è pur vero che amo anche il particolare. Quando ho iniziato a lavorare i giornali si rivolgevano anche a moltissimi analfabeti che sapevano scandagliare una foto molto più e molto meglio di chi aveva una cultura e una preparazione alle spalle. Avevano sete di storie. Per questo ho cercato sempre di raccontare a tutto campo senza però rendere la mia foto una lastra precisa del reale. Sono cresciuto, in giro per i giornali, sentendomi ripetere che le foto di cronaca non dovevano essere belle. Questo era terrificante, nella repubblica di Weimar, tanto per tornare a citarla, si pretendeva che anche i ferri da stiro fossero belli, le arti dovevano essere vissute e consumate. Per fortuna ho lavorato in giornali che ricercavano proprio questo ed erano giornali dell’estrema sinistra».
Come il Manifesto e poi Repubblica
«Io non ho mai lavorato per loro, cioè non ho mai avuto un contratto. Vendevo semplicemente le mie foto».
Fotografi si nasce o si diventa?
«Non mai creduto al genio. Credo, invece, nel lavoro. Picasso lavorava venti ore al giorno e ripeteva: “Quando arriva il soffio divino – l’ispirazione – mi troverà qui ad attenderlo, io aggiungerei: altrimenti questo soffio lo trovo da me. L’ispirazione va cercata. Ci sono temi orribili come la morte o la violenza, per riuscire a diffonderli, a farli conoscere, senza paura né timori, è necessaria la tensione di tutta quanta la vita e un’amore pazzesco per le persone che si raffigurano. Ma la tensione di tutta la vita si costruisce anche attraverso la visione di ciò che hanno fatto gli altri. Io stesso mi sono innamorato di tanti pezzettini altrui che hanno costruito me. C’è poi una domanda che dovremmo porci ogni tanto: come mai conserviamo dentro di noi dei capolavori artistici di estrema drammaticità? Prendiamo la pietà di Giovanni Bellini. L’opera è così coinvolgente che mi ha sempre dato l’impressione che fosse stata vissuta personalmente, che quella madre che piange il figlio fosse sua madre o la madre di un suo caro amico. Ecco, allora, qual è il punto: riuscire a trasmettere negli occhi altrui i dolori, le speranze, i rancori e i sogni per i quali i tuoi, di occhi, hanno pianto. Solo così, forse, si potranno fare delle foto di senso».