Cervini, l'universo dei simboli

Esaustivo, puntiglioso e preciso. Si presenta così Luca Cervini, visionario artista digitale che nonostante la giovanissima età sembra avere le idee chiare su cosa e come voler comunicare al mondo. Un universo oscuro, dai contorni inquietanti ma non castranti, racconta la sua arte figurativa, quadri ipermoderni nati da un immaginario visivo e concettuale nutrito dall’estetica dei videogiochi insieme all’acume di pensatori e scienziati. Come scrive il curatore Alberto Mattia Martini nel catalogo della mostra milanese, che si è recentemente conclusa, Equilibri e fratture “stiamo parlando di una fantasia innata, primordiale, che lasciata libera di creare è in grado di sprigionare una potenzialità immaginifica molto superiore a quella individuale e soggettiva. Un’arte colma di simboli e se vogliamo surreale, che ci consente di accedere al mondo dell’ignoto, della genesi, dove dominano gli archetipi”. Progetti sperimentali che ibridano figura e linguaggio, replicanti automi e abissi della mente, nel tentativo di cogliere, nello spirito di chi incappa nelle opere, un sobbalzo vitale generato proprio dall’incontro con i tanti aspetti della morte. Esausto ma eccitato dalla sua prima personale, Cervini ci conduce attraverso il suo mondo popolato da inquieti fantasmi.

Raccontaci del tuo processo creativo.
«Quando si sente il desiderio di esprimersi attraverso l’immagine, si ha inevitabilmente il dovere di instaurare un dialogo con le persone che fruiranno i contenuti del proprio lavoro, senza le quali un’opera realizzata non sarebbe poi tanto differente da un’opera immaginata e mai prodotta. È necessario quindi trovare un compromesso tra la parte astratta e la parte materica, un compromesso che, generalmente, è altalenante e non sempre piacevole. Nel momento in cui penso di avere in testa del materiale interessante da partorire ho la possibilità di tradurlo in piccoli schizzi a penna, su carta, per aiutarmi con gli spazi e con alcuni accorgimenti tecnici che andrò a realizzare successivamente. Ogni segno, per quanto possa essere perfetto, non lo sarà mai abbastanza da soddisfare quello che vediamo se chiudiamo gli occhi. La difficoltà del mio processo creativo è qui dentro: raccontare per immagini rimanendo il più fedele possibile al mio pensiero. Scatto per ogni opera innumerevoli fotografie, faccio scansioni, utilizzo pezzi di legno. Cerco in ogni elemento un simbolo che possa aiutarmi a raccontare il mio stato d’animo. Queste cose sono il mio linguaggio. Cercare di vomitare dei concetti è difficile ma allo stesso tempo stimolante».

Tecnicamente come si sviluppano i tuoi lavori?

«I miei lavori sono principalmente un insieme di fotografie. La fotografia mi permette di strappare brandelli dalla realtà per poi ricomporli a piacere. Questa sorta di “onnipotenza” è specchio delle infinite possibilità che oggi il digitale è in grado di offrire a chi sa manipolarlo. Attraverso questi moderni “collage” posso costruire visivamente i miei pensieri, creando l’illusione che ciò che vediamo fa parte di un unico contesto, quando in realtà ogni elemento è spesso fotografato in studio, separato dagli altri oggetti. Mi piace però avere anche la libertà della pittura, l’immediatezza del gesto, insomma quella parte irrazionale che mi porta a rompere gli schemi e sperimentare. Scansionare carta, plexiglass, terriccio, granelli di sabbia. Materiali che amalgamo con l’opera che sto realizzando, offrendo loro una nuova veste e un nuovo ruolo. Privi di vincoli, liberi dagli archetipi, come vorrebbero esserlo i personaggi delle mie tavole».

Trai più ispirazione dall’inconscio o dall’immaginazione?

«Difficile dirlo. Sarebbe banale incanalare la direzione dell’ispirazione attraverso l’una o l’altra cosa. L’ispirazione, semplicemente, arriva quando è il momento giusto. Penso che questa debba essere costantemente alimentata dalla vita di tutti i giorni, dalla musica, da un libro, da uno stato d’animo particolare. Uno o più di questi elementi sono in grado di scatenare in me un meccanismo che fa emergere altri ragionamenti, porta a galla altri pensieri più o meno reconditi e solo alla fine mi porta a una particolare visione esprimibile, o meglio condivisibile, solo con le immagini. Ecco, quello è il momento giusto per mettermi al lavoro. Dietro tutto questo c’è naturalmente l’eccezione che conferma la regola. Andare a dormire e “vedere” nella propria testa un’opera nuova che prima ancora di lasciarsi scoprire nei contenuti è già piena di energia, offre un entusiasmo sincero e inspiegabile».

I tuoi quadri hanno personaggi e ambientazioni ricorrenti. Vedi le tue opere come collegate tra loro o ognuna possiede una propria autonomia?
«Nel mio lavoro c’è una parte di me destinata all’eterno ritorno. Dentro questa parte vi sono le figure, le forme e i rimandi simbolici con i quali mi sento maggiormente in sintonia e che inevitabilmente mi ritrovo a inserire in ogni fotografia, per comunicare. Queste icone crescono e mutano con me, perché non sono altro che il mio pensiero. L’uso dei simboli è invece un “escamotage” che mi permette di costruire le metafore delle quali ho assoluto bisogno per comunicare. Ogni mio lavoro vive di vita propria, indipendentemente dal resto della produzione. Quindi se posso dire qualcosa con un’unica immagine, non vedo che senso avrebbe allungare il brodo per riproporla in più lavori consecutivi. Non mi piace ripetermi».

Ti sei espresso tramite il linguaggio figurativo, fotografico e pittorico. Nel tuo futuro ci sarà spazio per qualche altro mezzo?
«Lo penso sicuramente. Al mondo per fortuna abbiamo innumerevoli possibilità da sfruttare per veicolare delle sensazioni. Dunque esprimersi sempre con lo stesso linguaggio potrebbe sembrare, alla lunga, un po’ riduttivo. Non ho fretta di farlo adesso e probabilmente non mi allontanerò nell’immediato dal figurativo, ma sono ansioso e desideroso di sperimentare».

Tieni un blog dal titolo Sospensioni temporali. La scrittura come interagisce con l’immagine?

«La scrittura arriva al cuore delle persone quanto un’immagine. Trovo che le parole siano importanti quando riescono a dare ulteriore forza a ciò che i nostri occhi vedono. Ho deciso di aprire un blog per la necessità, soprattutto iniziale, di raccontare il “dietro le quinte” del mio lavoro. Mi interessava far capire che dietro la figura dell’artista c’è una persona che vive di alti e bassi come tutti: un modo come un altro per essere parte della contemporaneità. Sospensioni temporali prende il nome sia da una mia opera del 2006, sia per analogia dal concetto di “sospensione dell’incredulità” che, nel linguaggio letterario, non è altro che l’azione volontaria che un lettore deve garantire, e attuare, prima di entrare nel mondo dello scrittore: chiudere i sensi critici e razionali per credere e abbandonarsi alla nuova realtà che fluirà davanti ai suoi occhi».

A Milano ha inaugurato la tua prima personale, Equilibri e fratture: che esperienza è stata e come ti trovi nel particolare ambiente dell’arte contemporanea?

«La prima personale è un’esperienza indimenticabile. Offre un’enorme crescita individuale e psicologica, tanto per cominciare. Richiede poi una lunga preparazione soprattutto per chi, come me, non è abituato a produrre molti lavori all’anno, e per ogni lavoro soffre fino a che non lo ritiene pronto da esporre, e cioè quasi mai. Ma le scadenze aiutano e stimolano a prendere decisioni. Qualcuno non diceva forse che un’opera non è mai conclusa, ma solo abbandonata? Inoltre la personale in galleria richiede galleristi disposti a credere nel tuo lavoro. L’inaugurazio-ne offre infine la preziosa possibilità di ascoltare le persone, vederle entrare nelle proprie opere cercando di decifrarle. Non nascondo però che non sono troppo abile a convivere con questo ambiente. Concedetemi il beneficio di cambiare idea, e non vorrei sembrare retorico, ma al momento trovo che il bello del fare arte è solo l’arte stessa. Ovviamente solo se si è sinceri con il proprio lavoro. A volte mi sembra si stia giocando a un gioco di ruoli, snobismi, fotografie in posa. Perfette icone di un contesto basato sulla fama più che sul merito».

L’ARTISTA
Dalla fotografia al fumetto

Luca Cervini è nato a Merate, in provincia di Lecco, il 10 maggio 1984. Ha frequentato studi di grafica pubblicitaria, interessandosi all’arte nelle sue varie declinazioni: fotografia, videoarte e fumetto. Nel 2008 ha realizzato il suo primo fumetto breve, “Identity”, sviluppato con tecniche di illustrazione digitale e numerose fotografie scattate personalmente. Nel 2009, attratto dalle possibilità espressive del video, ha scritto e realizzato il suo primo cortometraggio sperimentale in “stop motion”, “Simulacrum, 13 seconds of life”. Nel 2006 ha partecipato alla sua prima mostra, una collettiva organizzata a Certaldo Alto dal premio Celeste.