Vittorio Sgarbi, si sa, è un provocatore nato, cresciuto sotto i riflettori del circo mediatico e pasciuto nella spettacolarizzazione dell’oggi. Chiunque si aspettava una presentazione del padiglione Italia alla prossima Biennale di Venezia col botto, non è andato deluso. Più che una conferenza stampa fiume – oltre tre ore e mezza – quello che è andato in scena giovedì 5 maggio al ministero dei Beni culturali è stato uno show del mancato soprintendente al Polo museale di Venezia e sottosegretario ai Beni culturali (per sua propria odierna ammissione). Fedele alla promessa fatta al premier e all’ex ministro Bondi suoi mentori, lo Sgarbi furioso ha lasciato da parte il neoministro della Cultura Galan – ribattezzato Gianfranco dalla direttrice per il Paesaggio e le Belle arti Antonia Pasqua Recchia, imbarazzante nella sua piaggeria – e si è limitato a polemizzare, con toni che hanno sfiorato la rissa da bar, con chi non condivideva la sua idea d’arte più accosta al culatello di Parma e alla salama da sugo di Ferrara, con cui ha rapito l’attenzione degli astanti per una buona mezz’ora.
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Mal ne ha incolto al povero Ludovico Pratesi, aspramente rimbrottato nel bailamme generale per dichiarare di preferire Fiorello a lui, nella conduzione dello show. Così Achille Bonito Oliva è detto infetto, pelosa l’incauta giornalista che chiede ragione dei fondi pubblici – un milione di euro per il padiglione Italia, ancora da definire i finanziamenti locali per le manifestazioni regionali – pervicacemente negati dal commissario che minaccia un padiglione in gommone: «Finora non ho visto un soldo, ho pagato di mio oltre ai contributi dei privati come Arthemisia e Emmanuele Emanuele». Presidente della fondazione Roma e del comitato dei “saggi”, alias intellettuali, che hanno scelto la pletora di artisti rappresentati: oltre 200 su un paio di migliaia nel complesso, 700 dei quali solo a Venezia. Sua la battuta migliore del giorno: «Sgarbi è un genio visionario, è lui il vero protagonista della Biennale, forse bisognava mettere lui nel padiglione Italia e finirla lì».
Così, tra omaggi al favorito del principe, contumelie, saluti e abbracci al galliname delle prime file, claque prona ad applaudire i passaggi più incresciosi, è sfilata la conferenza-monstre, specchio virtuale del paese reale. Peccato, perché nell’incapacità di essere un paese normale nel dire, oltre che nel fare, sono scivolate via le idee, pure ottime e grandiose, dell’italico “genio” di Sgarbi. Sana e logica è, infatti, la voglia di recuperare il filo spezzato tra intellettualità e creatività e la centralità dell’arte italica nel padiglione che porta il suo nome, negato da Paolo Baratta. Ottima è grandiosa l’intenzione di decentrare ben oltre Venezia l’elenco dei luoghi d’arte e cercare al di fuori del circuito dei soliti noti i nomi degni di rappresentare il Belpaese nel 150esimo della sua fondazione. Più che giusta, insomma, l’idea di ribadire che l’arte non è “cosa nostra”, cioè dei curatori che la nutrono a pappette e dei becchini che la seppelliscono a mazzette, ma di tutti. Ben venga un’arte fuori dalle meschinità di bottega, ma non per essere sepolta in vetrina dalla dittatura degli imbecilli.