A vederla così, minuta e all’apparenza fragile, con quella sua voce roca e lo sguardo introverso, pare impossibile immaginarla nelle situazioni difficili alle quali l’amore per la fotografia la stringe. Ma Giorgia Fiorio, un ventennio di foto ad alto livello, è un personaggio tutt’altro che debole. I suoi scatti, siano ritratti o campagne pubblicitarie, parlino di donne o uomini, come il primo dei suoi lavori pluriennali sulle comunità maschili chiuse – tipo i pompieri di New York e i soldati della Legione straniera – coi quali attraversa l’universo, raccontano un’umanità che si snoda traverso le pieghe della contemporaneità, lasciano trasparire lo sguardo di chi, partendo da tutt’altri ambiti – un passato di comparsate nelle commedie con Jerry Calà e di canzonette a Sanremo – guarda alla sua professione come a una missione, racconta in immagini pluriversi sincroni all’immaginario dominante. Come l’ultimo progetto, Il dono, un viaggio sul rapporto dell’individuo col sacro realizzato tra il 2000 e il 2009 attraverso trenta paesi e cinque continenti, che ha ricevuto il patrocinio dell’Unesco per la sua capacità d’illuminare usi e situazioni tali da essere definiti “patrimonio immateriale” dell’umanità. Un resoconto per immagini capace di unire alla fedeltà del reportage la fattura creativa della foto d’autore, esposto al “photo festival” di Lucca, dove lei ha tenuto un “workshop” sul fare fotografia. E dove l’abbiamo incontrata per farci raccontare il suo ultimo lavoro, oltre al suo rapporto con l’ottava arte.
L’uomo e il sacro, un rapporto antico e controverso, come lo racconti?
«Ho intitolato questo lavoro di nove anni Il dono senza valutare appieno la portata di questa parola. Si dice che tutti quelli che credono hanno un dono, in realtà questo termine transitivo si articola sul trasferimento, è al centro di qualsiasi rituale in tutto il mondo, in ogni tempo. Si tratta di un’offerta, di ricevere qualcosa per cui si ringrazierà e si offrirà di nuovo. E l’oggetto di questo meccanismo di andata e ritorno è sempre la vita umana: la prosecuzione della vita, la fertilità della terra, il culto dei morti. Qualsiasi rito gira attorno al ciclo vita-morte, al sacroma anche al mistero, all’inconosciuto».
E il dono della fede?
«Non mi esprimo su questo, per me è una cosa molto privata. Il fatto di credere in una fede rispetto a un’altra è come parlare diverse lingue. Ognuna, in modo diverso, esprime forme della stessa ricerca».
C’è un rapporto molto stretto, semanticamente parlando, tra dono e sacrificio. Nelle tue foto nessuno sorride, forse quest’ultimo prevale?
«Il sacrificio è una delle accezioni del dono, dell’offerta. E, fondandosi sul rapporto vita-morte, c’è senz’altro un rapporto semantico tra loro».
Perché questo interesse precipuo per le comunità chiuse maschili?
«Negli anni Novanta e Duemila, in cui ho realizzato il lavoro sugli uomini, la condizione dell’uomo e della donna nelle società occidentali si stava riconfigurando, m’interessava penetrare un aspetto che appartiene agli “ideali” di un immaginario collettivo di un passato recente. La donna è in una dimensione d’integrazione diversa e non ha comunità di questo tipo perché è il primo anello di una catena sociale. Non ha bisogno di confraternite in quanto è lei la comunità, nel suo farsi madre, anche se ci sono donne che vi rinunciano, come le monache e le prostitute».
Hai scattato in situazioni estreme, apparentemente sembri avere un forte carattere, ma come sei dietro la macchina fotografica?
«Mi piace l’ordine, la forma, la bellezza perché credo sia catartica, ma mi sento sempre inadeguata e insufficiente. Penso che la capacità di esprimersi artisticamente sia una grazia al servizio della quale ti metti, spero di essere all’altezza delle cose nel momento in cui ho la fortuna di avere un’ispirazione».
Parliamo un po’ della fotografia, nel momento attuale.
«Stiamo vivendo un enorme paradosso. Nonostante l’enorme quantità di persone che fanno fotografia, o forse proprio per questo, siamo completamente circondati da immagini, eppure stiamo in qualche maniera cancellando la memoria del nostro presente. Una volta il Natale, le foto di famiglia, il viaggio con gli amici, erano sempre un momento speciale, mentre adesso tutti quelli che possiedono un telefonino sorno virtualmente nostri colleghi, ma qual è la differenza tra fotografare ed essere un fotografo? Fotografare tutto, all’infinito, equivale a non fotografare nulla. Chi stampa più foto? Nessuno, dopo quelli della mia, ormai vecchissima, generazione. Tutti mandano una fotina sul telefonino, un’immagine resta nella memoria del computer qualche giorno, poi viene cancellata. È impressionante, un fenomeno culturalmente pazzesco, in qualche modo ci fa uscire dal rapporto importante della foto che ferma qualcosa di noi. Dunque, oggi fare fotografia prevede un livello di consapevolezza, di scelta storica, semantica, estetica, tanto più difficile quanto richiede una consapevolezza rispetto a sé stessi alla quale siamo disabituati, nascosti come siamo in uno spazio-tempo altro rispetto a quello in cui ci troviamo: sto qui e parlo al telefonino, sempre con la mente altrove. La fotografia, invece, esige tutta la nostra attenzione. Fare buona fotografia, ora che il linguaggio dell’immagine è quello più diffuso, non è più abbastanza: è il punto di partenza e non d’arrivo del principio creativo. Nel momento in cui si decide di diventare fotografi ci si deve collocare in questa dimensione unica: fotografare qualcosa di nuovo è difficilissimo, per non dire impossibile, tuttavia è ancora possibile fotografare qualcosa nota a tutti da un punto di vista unico. Ognuno può esprimersi in maniera unica su qualcosa che gli appartiene veramente, si tratta di capire cosa guardano i nostri occhi, da cosa sono attratti. Siamo bravi solo a fare le cose che siamo bravi a fare, quello che ci piace. Dobbiamo smettere di razionalizzare ciò che vediamo ma seguire lo sguardo, la visione. Il momento dello scatto che precede l’immagine è estremamente importante, è il primo passo, determina la nostra posizione rispetto al mondo, il punto di vista sull’accadimento. Fotografare, oggi, significa cominciare a capire quali cose ci interessano davvero, quello che ci sta a cuore veramente, non quelle che tirano di più. Non i desideri del committente ma i nostri, inevitabili, quelli a cui non ci si può sottrarre. Si è sempre arbitrari nelle proprie scelte, tanto vale esserlo in modo consapevole. Oggi si scatta a raffica e via, ma la relazione con la macchina è fondamentale, è estremamente importante capire qual è la distanza reale, prossemica, da ciò che si fotografa. L’occhio ha una capacità di movimento superiore al cervello, basta seguirlo. Un fotografo russo ha scattato le notti bianche di San Pietroburgo con un tempo di posa infinito, così la città appare vuota, piena solo di fantasmi, corpi senza corpo che attraversano le strade, rappresentandola come la vede lui, in modo evanescente come il suo passato. Forma e contenuto, come in questo caso, sono indissolubili. Bisogna pensare che non si fanno foto per sé stessi né per gli altri, ma perché non si può farne a meno. Questo vale per ogni creazione artistica, non si diventa qualcuno in nessun campo se non perché non puoi non fare quello che fai. Sei chiamato a farlo. Fotografare vuol dire, infine, interrogare il mondo, porsi davanti alle cose che non capiamo. Ma la foto non risponde, interroga noi che guardiamo e chi guarda vede in quelle foto un’altra risposta, o un’altra domanda. La fotografia è sempre un interrogativo per chi guarda e per chi la guarda».
L’ARTISTA
Da Sanremo al Grin
Nata il 23 luglio 1967 a Torino, Giorgia Fiorio inizia la sua carriera nei primi anni ‘80, come cantante, con alcune partecipazioni a Sanremo ed attrice (Sapore di mare e altre commedie adolescenziali, con Jerry Calà e Christian De Sica). Archiviate queste prime esperienze, dagli anni Novanta si dedica alla fotografia, con numerosi reportage e varie mostre nel mondo. Dopo aver frequentato l’International center of photography di New York, lavora principalmente su progetti personali a lungo termine, a carattere umanistico. Tra il 1990 e il 2000, porta avanti una ricerca sulle comunità chiuse maschili nella società occidentale, Uomini. Dal 2000 al 2009 avvia una ricerca fotografica sulla relazione tra l’individuo e il sacro, dal titolo Il dono che vince il Premio Grin e ottiene il patrocinio dell’Unesco. Tra i progetti: Humanum, il terzo lavoro del ciclo iniziato con Uomini. E, dice, «uno sguardo, meno impegnativo in termini di tempo, sui confini naturali dell’Italia: cum finis, punto d’incontro tra due entità che iniziano e finiscono e corrisponde all’infinito nella morfologia del paese». Otto i book fotografici: Soldati (Contrasto, 1992), Des Russes (Éditions de l’imprimeur, 1993); Legio patria nostra (1996); Ser torero (1997), Box’in Usa (1998), American fireman (2000), Hommes de la Mer (2001), Des Hommes (2003), tutti con Les éditions Marval. Vive a Parigi.