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di Giorgia Bernoni
riprese Francesco Talarico – montaggio Camilla Mozzetti
Il 27 gennaio del 1945 furono abbattuti i cancelli di Auschwitz. Dopo la seconda Guerra mondiale i luoghi del sapere e della testimonialità erano stati allontanati da ogni tipo di ricerca, soprattutto artistica e creativa, ponendo l’uomo nella condizione di rifiutare la sua stessa immagine, ascrivibile alla naturale malvagità del genere umano. Solo dagli anni Settanta (si pensi a Renzo Vespignani, Fabio Mauri e Christian Boltanski), la questione della memoria emerge, nel tentativo di rintracciare un’identità dell’esistenza.
Negli ultimi anni qualcosa è cambiato, la volontà di raccontare e soprattutto di ricordare, è diventata una necessità, tanto che il 20 luglio del 2000 il parlamento italiano aderisce alla proposta internazionale di dichiarare il 27 gennaio Giorno della memoria, al fine di ricordare la Shoah, le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei e gli italiani che hanno subìto la deportazione.
Sull’argomento sono stati pubblicati migliaia di libri, girati centinaia di film, messe in scena rappresentazioni teatrali, fatti concerti e manifestazioni. Tutto ciò si compie con un unico scopo: chiedersi costantemente quale sia il reale dovere della memoria. Un dovere a cui non si tira indietro nemmeno l’arte visiva che diviene strumento di documentazione, mentre gli artisti, attraverso le loro opere, assumono una posizione di denuncia.
Quest’anno la Ermanno Tedeschi gallery di Roma ospita, dal 25 gennaio fino al 9 febbraio, la mostra collettiva Per non dimenticare. Le forme culturali della memoria nella rappresentazione della Shoah, a cura di Giorgia Calò. La manifestazione, patrocinata da Roma Capitale, dalla regione Lazio, dalla provicnia di Roma e dalle istituzioni ebraiche italiane, propone un’interpretazione e una lettura soggettiva del rapporto degli artisti contemporanei con la memoria. Un atto creativo che evidenzia un legame profondo e indissolubile con l’atto artistico e con il linguaggio stesso dell’arte.
L’evento, che coinvolge 14 artisti contemporanei nazionali e internazionali, occupa la stessa regione che permette al linguaggio artistico di raccontare e di rappresentare, in un modo efficace e diretto, una tragedia che è stata a lungo deposta sul crinale tra il dicibile e l’indicibile. Adoperando mezzi eterogenei, dalla fotografia all’installazione video, gli artisti volgono la loro attenzione alla shoà che da documento si trasforma in opera creatrice, momento in cui avviene la fruizione tra autore e osservatore. Per questo l’opera d’arte non è più intesa come luogo di rappresentazione ma come uno spazio vitale dell’azione.
In mostra possiamo vedere il ritratto di Ida, detta “la cioccolataia”. Georges De Canino, artista di origine francesce, trasferisce il numero di matricola della ex deportata triestina dall’epidermide sulla tela: 704120, un numero indelebile che grida tutto l’orrore di ciò che è stato. È il caso anche delle tre sorelle ritratte dall’israeliana Vardi Kahana che mostrano dignitosamente il braccio tatuato, fiere di essere sopravvissute. Barbara Nahmad descrive invece Anna Frank in un’espressione di felicità e spensieratezza, tipica dei ragazzi della sua età ma che a lei è stata strappata via senza pietà. I luoghi dell’infanzia tragicamente perduta è il tema anche dei lavori realizzati ad hoc da Valerio Berruti ed Elia Sabato. Quest’ultimo incide sull’acciaio specchiante una stella di Davide il cui centro è abitato da un giovane volto raffigurato in tutta la sua carica espressiva di stupore e terrore. La stella di Davide è il tema dominante anche dell’opera "site specific" di Graziano Russo che la realizza in vetro e la pone sopra sei sampietrini, simbolo dell’ex-ghetto ebraico di Roma, e di Luigi Mulas Debois con un’installazione del 2006 che evoca nella sua semplicità l’orrore incancellabile della shoà.
Il ricordo dei cadaveri gettati nelle fosse comuni, quando non bruciati nei forni crematori, è evocato nella scultura ambientale di Menashe Kadishman, composta da teste circolari di metallo dall’espressione drammatica. "Shalechet. Fallen leaves (1997-1999)", presentata al Museo Ebraico di Berlino, è intitolata alla memoria del Vuoto. Evoca le vittime della Shoah anche David Reimondo che usa pane azzimo carbonizzato e poi grattato per far emergere stati espressivi devastanti. Oltre ai perseguitati uno sguardo particolare viene dato anche ai luoghi. Si tratta di scenari reali, come lo Yad Vashem fotografato da Bruna Biamino; immaginari, come il bosco fortemente evocativo nella sua struttura alfanumerica di Tobia Ravà; introspettivi nella rievocazione di stati dell’anima, come le opere fortemente simboliche di Ivan Barlafante e di Giuliano Pastori. Infine Maurizio Savini presenta un’installazione riflessiva che invita lo spettatore a specchiarsi letteralmente nei meandri della memoria.
Da questa mostra si evince come l’opera d’arte, attraverso le sue diverse forme culturali, sia destinata a durare e a farsi portavoce di una testimonianza tragica, un urlo disperato che dal passato assorda ancora oggi.
Ermanno Tedeschi gallery
via Del Portico D’Ottavia 7, Roma
Info: 0645551063; www.etgallery.it