L’intervento che pubblichiamo è tratto dal catalogo della mostra José de Guimarães, Mondi, corpo e anima, inaugurata con oltre 600 ospiti sabato 18 settembre e in corso all’Art forum Würth di Capena, vicino Roma, fino al 5 marzo del prossimo anno. Nel volume (edito da Swiridoff Verlag, 128 pagine, 18 euro) oltre al testo dello scrittore Tabucchi (nella foto in basso), legato visceralmente al Portogallo, figurano anche scritti di C. Sylvia Weber, Kosme de Barañano, Emanoel Araújo e dello stesso artista lusitano.
Totem senza tabù potrebbe intitolarsi questa mostra di José de Guimarães. Nella sua pittura “totemica” il tabù tipico della cultura occidentale è assente fin dalle prime opere. La propria vocazione pittorica Guimarães l’ha infatti scoperta in Africa, dove tuttavia nel frattempo aveva “scoperto” l’Africa. La contemporaneità della scoperta, quella di un Continente e quella dell’Arte, ha fornito al suo sguardo una freschezza inedita, come se l’arte europea non avesse ancora scoperto l’arte africana. O meglio, come se non l’avesse ancora scoperta in maniera così profonda e intima da poter entrare in confidenza con essa.
È innegabile che le arti “primitive” (o Primaires, come ora le chiamano in Francia almeno da quando il Musée de l’Homme ha traslocato al Quai Branly), abbiano profondamente influenzato la pittura e la scultura del Novecento. Le avanguardie storiche ne furono affascinate e ne fecero un culto: Picasso, Giacometti, Modigliani, un certo Cubismo, il Surrealismo intero non esisterebbero senza l’Africa. Ma, a pensarci bene, è una direzione a senso unico, è l’arte “primitiva” che investe l’arte europea: l’artista occidentale se ne lascia coinvolgere, la riceve, l’accoglie, la coltiva, l’assorbe, l’utilizza e ne fa un proprio segno, ma non osa lasciare il proprio segno sull’arte “primitiva”. Il suo non è un rapporto dialogico, è un rapporto monologico.
Il dialogo alla pari di José de Guimarães con la “sua” Africa è flagrante nelle opere qui esposte (un’antologia della sua enorme produzione “africana”). I due soggetti, l’Artista e l’Arte africana, si parlano, cicalecciano, scherzano o si complimentano, si reverenziano, si sussurrano, ammiccano, confabulano, gesticolano, si chiamano, usano codici espliciti o segreti, interpretabili o clandestini, in un colloquio costante fatto di segni, di colore, di luci. Il rito, la stregoneria, il soprannaturale, gli eventi naturali, la vita, la nascita, la morte: questa la sintassi basica. Su di essa il linguaggio, addirittura l’alfabeto. Antichissime civiltà (penso agli egiziani o ad Ebla) ci hanno lasciato alfabeti che sembravano impossibili da penetrare e che infine gli archeologi hanno decifrato. Ma anche le civiltà che non hanno lasciato alfabeti avevano a loro modo degli alfabeti: solo che non possono essere decifrati, possono solo essere immaginati. E José de Guimarães li immagina, li “rifà”, disegna le parole che non sono mai state scritte, affida all’arte quello che è il suo compito fondamentale: creare. E l’atto creativo ha un consustanziale quoziente ludico: il principio di piacere che appartiene soprattutto al gioco. Non il gioco inteso come puro divertimento, ma quel “gioco serio”, molto serio, di cui ci parla Huizinga ne Il gioco degli uomini.
Prendere dall’Africa e ridare all’Africa, trasformato, quello che essa ci ha dato, in una dialettica costante, in un rapporto quasi amoroso, in un continuo scambio delle parti in cui le identità si confondono e ciò che era antichissimo diventa moderno, mentre ciò che è moderno sembra venire risucchiato dal tempo, questo è il gioco di specchi che José de Guimarães costruisce nelle sue opere. Una camera di energia, un arco voltaico dal quale scaturisce una scintilla che all’improvviso illumina il Cuore di Tenebra che noi europei portammo in Africa la prima volta che vi mettemmo piede.