Nel segno del padre

Per alcuni un nome importante è un peso, per altri un sollievo. Un peso perché si fa presto a etichettare qualcuno come “figlio di…”, un sollievo perché quell’appellativo, a torto o ragione, apre con molta più facilità determinate porte. Francesca Leone dietro la macchina da presa c’è stata solo da ragazza prima di intraprendere l’accademia di Belle arti. Oggi è una pittrice, «un’artista incredibile, fertile, raffinata», per usare le parole di Ennio Morricone, una donna che non fugge dal proprio nome che, al contrario, ha saputo onorare. Capace, secondo Giuliano Gemma, di una particolarità disarmante: «Dipinge con un tratto incisivo, mascolino, che ne esalta l’unicità».

Nella sua carriera quanto ha influito chiamarsi Leone?

«Se ripenso alla mia vita da bambina, poi da ragazza, da adolescente, un po’ questo nome mi è pesato. Si fa presto a dire è figlia di, ma poi quello che conta è saper dar sostanza a un nome. Paradossalmente ho dovuto combattere di più per mostrare una capacità, un talento che ho scoperto con il tempo. Il mio è un nome pesante, è vero, per fortuna non competo con mio padre nello stesso campo. Chiamarmi Leone mi ha aiutato, aperto diverse porte, ma mi avrebbe anche distrutto se non fossi stata in grado di mostrarmi valida e credibile in quello che faccio».
Che ricordo ha di suo padre? Insomma, Sergio Leone…
«Per me era mio padre e basta, un uomo che teneva moltissimo a valori come la lealtà, la famiglia. Ha fatto pochi film, quelli in cui credeva, ne avrebbe potuti far molti altri, ma non si è mai piegato a nessun compromesso. Era anche una persona “instabile”, come tutti i geni. Chiaramente quando vivi in un ambiente dove c’è un personaggio così rischi di rimaner vittima del suo egocentrismo. La mia famiglia era tutta concentrata su di lui, su quello che faceva e come lo faceva. E forse è questo il motivo per il quale ho intrapreso la pittura così tardi, a 37 anni suonati. Un mio rammarico: è l’unico aspetto, pensandoci, che mi sia pesato».
Perché proprio la pittura e non il cinema o la danza, come sua madre?
«Non avevo la sicurezza, non mi sentivo all’altezza, semplicemente non volevo competere con nessuno dei due. In primis perché non sentivo il cinema e la danza arti connaturali al mio modo di essere, e quindi se avessi intrapreso una delle due strade, senza troppe difficoltà, avrei sofferto sicuramente la sindrome del figlio “mancato”, un fallimento di fronte a una bravura che non mi apparteneva».
E quindi l’accademia.
«Ci sono arrivata un po’ tardi, ma fin da bambina mi piaceva molto disegnare, forse ho ripreso il talento di mio nonno che era un illustratore del Messaggero. A scuola, il sabato, la maestra ci metteva musica classica e ci faceva disegnare, dovevamo esprimerci attraverso il tratto di una matita, una sorta di educazione che si è tramutata negli anni in passione e mestiere. Ho anche avuto dei periodi di stop, dipingevo ma lo facevo sulla porcellana, per tanti anni ho avuto anche un negozio, ma era come se avessi chiuso tutto in un cassetto e non l’avessi più riaperto. Poi mi sono iscritta all’accademia e studiando la pittura in modo serio ho capito che era il mio modo di esprimermi».
Il suo è uno stile particolare: enormi tele, volti umani giganti, tratti quasi impercettibili.
«Ho provato a disegnare anche cose piccole, ma il mio è anche un bisogno di gestualità. Ho bisogno di una grande tela proprio perché il gesto, la fatica, l’esercizio fisico è una componente indissolubile del mio lavoro. La scelta dei volti umani dipende dalla mia attrazione verso le persone. Il viso, più di ogni altra cosa, rappresenta uno schermo attraverso cui vedere dentro. Se dovessi definire la mia pittura la chiamerei espressionista, quasi. Le stesse colature, che sono poi quelle attraverso cui prende vita il disegno, sono volute ma molte sono anche casuali e, le dirò, sono proprio quelle che non prevedevo ad appagarmi maggiormente nel risultato».
I suoi non sono volti casuali, ritrae Martin Luther King, Gandhi, non pensa di eccedere, di essere quasi scontata? Non c’è oggi nessun altro da raffigurare?
«No, ed è questa la cosa triste. La scelta di quei volti non è una fanaticheria. Sono stati dei personaggi che hanno radicalmente modificato il nostro modo di vivere e pensare e smettere di ricordarli sarebbe un oltraggio. Quando feci la mostra al Mmoma di Mosca, Oltre il loro sguardo, era come se loro ci guardassero, guardassero la nostra contemporaneità. Oggi non trovo altro da raffigurare, non ci sono più personaggi, volti e uomini e donne del genere, è difficile da accettare. Capita, però, anche che io dipinga dei volti sconosciuti o di persone a me care solo perché vedo in quei visi qualcosa che mi attrae».
Però sono sempre volti doloranti, sofferenti?

«Perché riportano un mio stato d’animo, anche se apparentemente sono quasi sempre sorridente, vivace, ho un fondo di profondo pessimismo».
E da cosa nasce?
«Probabilmente da un’indole naturale, e poi vedo intorno a me le cose che mi portano a essere così. Vedo gente che dovrebbe stare insieme tutta la vita e poi non fa altro che cornificarsi e lasciarsi, vedo delle tragedie personali ripercuotersi su una collettività inerme, vedo che il mondo che ci circonda non ci dà questo esempio meraviglioso. Sono un’idealista e al contempo una disincantata».
Tecnicamente come lavora?
«Come prima cosa, uso la fotografia. È il mio bozzetto, dopodiché passo al carboncino per il disegno, con del morden – tecnica d’olio ­– preparo la tela per renderla un po’ più materia, poi il bitume e l’olio. La chiamo tecnica mista. Per quanto riguarda i colori, dipendono molto dal mio stato d’animo. Come ogni opera che realizzo, anche questi sono la trasposizione dei miei sentimenti. Uso tinte tenui sobrie, non amo i colori sgargianti perché stancano, come tutte le cose eccessive. C’è stato un periodo in cui avevo bisogno del colore, sui volti non riuscivo a metterlo e quindi accanto ai ritratti dipingevo paesaggi, ma era una valvola di sfogo».
È un lavoro quotidiano, il suo?
«Non dipingo tutti i giorni, ci sono anzi delle fasi in cui sto ferma per molto come è accaduto lo scorso anno, dopo aver lavorato moltissimo».
È un’artista che fa dell’ispirazione una moda, un vezzo?
«Ma, guardi, io parto sempre da un’idea. E non lo dico in tono saccente, la chiami pure ispirazione se vuole, nell’accezione positiva del termine, però. Odio gli artisti che fanno sfoggio di sé, che si sentono arrivati, c’è sempre una componente di sana umiltà che tutti dovremmo avere per saper guardare ai nostri limiti e trovare sempre un motivo di crescita. Il mio non è un lavoro meccanico, ci sono dei lunghi periodi nei quali non tocco pennello, però è un bisogno, come quello di nutrirsi, che mi porta a cominciare di nuovo. Posso dire che i miei lavori nascono spontanei, non sono mai su commissione, non riuscirei a farli».
Dopo la personale alla galleria Valentina Moncada che progetti ha?
«È ancora tutto in fieri ma il prossimo autunno dovrei esporre negli Stati Uniti, a San Francisco».

Dall’11 marzo al 21 aprile
Galleria Valentina Moncada
via Margutta, 54
063207956
www.valentinamoncada.com