Non era un santo. Del resto in questo mondo chi lo è più? Anzi chi mai lo è stato? Specialmente se il mondo di cui si parla si restringe al solo campo dell’informazione. Tra santi e dannati, i secondi vivono meglio. Sandro Curzi era un giornalista. Molti ricorderanno il suo volto, la sua testa sgombra da capelli, quegli occhiali dalla montatura anni ’80 con cui giocherellava di fronte la videocamera, come se fosse a casa sua, mentre leggeva i suoi famosi editoriali o quando conduceva il suo telegiornale. Il Tg3.
Ora, a distanza di un più di un anno dalla sua morte, Roma lo ricorda. Il quartiere Monti, dove Curzi ha vissuto per anni, ospita dal 4 al 17 marzo una mostra a lui dedicata nella galleria ex Roma club Monti.
Un percorso biografico, scrupolosamente cronologico che vuole raccontare l’uomo, il militante di partito, il giornalista. E così attraverso quasi venti pannelli costruiti attraverso le foto delle tappe più significative della sua vita, insieme ad alcuni video racconti, si cerca di delineare la figura del giornalista.
Nato come comunista, legato al gruppo dirigente storico del Pci, Curzi è stato soprattutto un giornalista. I suoi primi articoli videro la luce in quelli che Palmiro Togliatti chiamava i giornali “non di partito” ma collegati al movimento comunista. Basti pensare al settimanale Pattuglia, a La repubblica d’Italia, al suo impegno sulle colonne di Gioventù nuova, il settimanale della Fgci diretto da Enrico Berlinguer. Basti ricordare Nuova generazione, L’unità, Oggi in Italia, la trasmissione radiofonica che durante la guerra fredda trasmetteva da Praga grazie al contributo economico dei paesi dell’Est. E poi Paese sera di cui Sandro Curzi fu vicedirettore dal 1967 al 1975. Fino ad allora fu un giornalista militante di partito. Scriveva ma scriveva avendo alle sue spalle la grande famiglia di Botteghe oscure.
Dalla metà degli anni ’70 iniziò la sua trasformazione; entrava in Rai attraverso un bando di concorso e iniziava dal Gr1 di Sergio Zavoli vestendo i panni del redattore ordinario. A distanza di pochi anni, nel 1978, venne chiamato a partecipare insieme a Biagio Agnes, Alberto La Volpe, Orazio Guerra alla costruzione della terza rete Rai. Da allora, per quasi dieci anni, Curzi ricoprì il ruolo di vicedirettore di quel telegiornale, assumendone il comando nel 1987. Con la sua direzione il Tg3 aumentò vertiginosamente in pochi anni gli ascolti, passando dal 3% di share al 20% negli anni ‘90.
Come si può capire, dunque, Sandro Curzi ebbe nella sua vita due grandi passioni: la politica e il giornalismo. E se da una parte è attendibile la definizione del presidente Fausto Bertinotti che lo definisce come colui che, meglio di altri, riuscì a impersonificare la definizione pasoliniana del Pci e cioè quella di essere un Paese nel paese, è pur vero che riuscì a essere, nonostante la sua fede politica, profondamente e ostinatamente un giornalista nell’accezione più alta del termine.
Il suo più grande successo fu il Tg3. Con questo giornale Curzi scosse irrimediabilmente il modo di fare informazione televisiva. Creò un telegiornale che aveva il compito, e si poneva l’obiettivo di informare i cittadini più che di divertirli, di dare spettacolo. Era il telegiornale che meglio di altri riusciva a rendere un vero servizio agli italiani. Attento alla politica non trascurò mai le componenti a lui più lontane, al contrario. Il Tg3 fu il telegiornale che scoprì il fenomeno nascente della Lega nord di Umberto Bossi e quello che seguì senza esitazioni l’evoluzione del Movimento sociale italiano, fu il telegiornale che per questo venne considerato il preferito dai giovani missini.
Fu anche il telegiornale della gente, di quella gente elevata a protagonista, che viveva l’Italia e nell’Italia, alla quale Sandro Curzi si rivolse sempre con estremo rispetto convinto della missione sociale della televisione e del suo ruolo pedagogico. Fece del tg il microfono delle piazze, diede ampio spazio alla cronaca, propose una diversa forma di comunicazione, andò a scoprire la realtà del nostro paese che fino ad allora era stata tendenzialmente nascosta. Nacque così una televisione di scoperta, e di questo il cittadino se ne rese conto.
Ripeteva sempre «un giornale non è niente se non apre porte, finestre, se non riesce quotidianamente a interagire con il suo pubblico». Da un punto di vista tecnico a contribuire a tutto ciò furono gli editoriali di Curzi, mai vestiti di alcuna astuzia formale ma, al contrario, incisivi e credibili. Non corresse mai il suo difetto di pronuncia, quell’accento romano rendeva il Tg3 un prodotto popolare e al contempo credibile. Non usò, né fece mai usare ai suoi conduttori il teleprompter, gergalmente gobbo elettronico, sopra il quale i giornalisti leggono i lanci dei servizi.
Aveva l’urgenza della diretta, l’unica in grado di farti capire la realtà delle cose. Portò alla ribalta fatti sociali da molti trascurati. Uno di questi fu il racconto delle vertenze sindacali nelle miniere sarde del Sulcis Iglesiente, tra il 1992 e il 1993, che vennero seguite dalla sua giovane redattrice Bianca Berlinguer, oggi direttore del Tg3. Quel periodo raccontato dal telegiornale venne poi elevato a simbolo di un’Italia che stava perdendo il posto di lavoro. Divenne una storia che tutti copiarono.
Prendeva, Curzi, l’informazione quasi come una missione e trasmetteva questo senso di missione ai suoi collaboratori. Corradino Mineo ha detto: «il Tg3 era anche un prodotto brutto, sporco, cioè non sufficientemente curato negli aspetti formali, eppure era un prodotto vivo, cercava di raccontare, pur tra mille errori, una realtà in drammatico cambiamento. L’informazione di Sandro Curzi è stato un tra gli insegnamenti fondamentali della mia vita».
Raccontò meglio di altri la cronaca della prima guerra del Golfo tanto che la Cnn ne richiese un servizio. Trasferì quasi per intero la redazione in Sicilia durante le stragi di mafia e pur restando sempre un comunista, raccontò con una profonda onestà intellettuale il dopo Bolognina e la fine del più grande partito di massa che il paese abbia mai conosciuto. Sapeva quale era il compito del servizio pubblico e cioè quello di informare, di far conoscere, di educare. In questo senso Sandro Curzi è stato veramente e profondamente un uomo della Rai.
L’esperienza nell’azienda di stato terminò nel 1994, quando al Cda di viale Mazzini salirono i cosiddetti professori capeggiati da Claudio de Matté. Allora Curzi venne accompagnato alla porta, lasciava la Rai, perché il suo modo di operare risultava essere in contrasto con la nuova politica aziendale. Nonostante ciò, seppe reinventare sé stesso, prima con Cecchi Gori a Tmc e poi con Fausto Bertinotti a Liberazione. Anche lì pur lavorando per un organo di partito non diresse mai il giornale per fare un favore a Rifondazione comunista.
Curzi, l’uomo “sanamente” di parte, come a qualcuno piace definirlo, ebbe nelle mani il potere e la forza dell’informazione, potere e forza che mise al servizio dei lettori prima, dei telespettatori dopo perché è per questi che lavorò. Dosò la sua parte politica e interpretò, da giornalista, la realtà anche con una sua chiave ideologica ma pur sempre con una grande onestà intellettuale. «Non si può essere cronisti di nulla se non si ha mente e cuore – scriveva – se l’una non fuma e l’altro non batte. Uomini e donne senza passioni, sono sempre uomini e donne senza valori anche quando fanno i giornalisti».
Dal 4 al 17 marzo
galleria d’arte ex Roma club Monti
via Baccina 66, Roma
Info: 066796318; 3386378138.