Un libro si tocca, si sfoglia, si assorbe, poi ci trasforma e a volte si trasforma. Come nelle metamorfosi artistiche di Sabrina Mezzaqui, bolognese classe 1964. Nei suoi lavori i volumi si aprono al mondo, non solo attraverso le parole, ma dispiegando e svelando le ali di un’anima leggera e dispensatrice di vere e proprie poesie visive.
Sabrina, il libro è un oggetto prezioso, da custodire con cura. Quale valore assume all’interno della sua parabola creativa?
«A volte cerco proprio di sottolineare questa preziosità dell’oggetto: il materiale di cui è fatto, la carta, l’impostazione tipografica, le pagine, le righe, le parole stampate, il gesto dello sfogliare. Spesso penso ai testi antichi in rotoli di pergamena, ai papiri egizi o ai libri sacri dei Maya che erano lunghe strisce piegate a fisarmonica. Ho letto che in India nel giorno della Saraswati Puja, dedicato alla dea della sapienza, i libri non vanno letti, ma solo venerati insieme agli altri strumenti delle arti: pennelli, colori, strumenti musicali. Ho letto che la parola libro in cinese si indica col carattere jing che significa anche filo di seta, allo stesso modo del sanscrito sutra, come se il libro fosse un tessuto fatto di tanti fili».
Parola scritta e immagine si sposano in maniera armonica. Come raggiunge questo equilibrio?
«Penso che questo matrimonio avvenga in maniera spontanea nella nostra mente che funziona simbolicamente. L’etimo di intelligenza, intellegere, significa leggere tra, quasi a voler indicare quel piccolo spazio bianco, vuoto tra le righe che può riempirsi di qualsiasi immagine. Mi è capitato di presentare dei testi particolarmente significativi – Velo, Svetambara, Lettere Arendt-Heidegger – togliendo il fondo, lasciando solo le lettere sospese nel vuoto, attraverso cui è possibile guardare oltre, lo spazio dietro le parole, quello che succede intorno».
C’è molta manualità nel suo lavoro: ricami, ritagli, incastri stupefacenti. L’opera nasce durante la realizzazione o è già presente nella sua immaginazione?
«Ci sono opere che arrivano come visioni, perfette, belle, che chiedono solo di essere realizzate. Poi lavorando pazientemente, toccando le cose, sbagliando, spostando, mi accorgo di altre possibilità e quindi di altri lavori».
La spiritualità, la tradizione filosofica e letteraria, che influenza hanno?
«Alcune domande, come questa, andrebbero poste direttamente alle opere, o perlomeno di fronte a esse. Per quello che mi riguarda, metterei intanto la parola spiritualità tra parentesi, perché allude a qualcosa di molto sottile, indicibile, imprendibile. Mi viene solo in mente una sentenza che dice che ogni libro che meriti di essere riletto è stato dettato dallo spirito. Penso allora a tutti i testi sacri dell’umanità, a quanto siano stati cantati, letti, ascoltati, trascritti, meditati, di quanta energia e vitalità si siano caricati nei secoli, nei millenni, quanta saggezza trasudino, e sono qui, a disposizione di tutti, a portata di mano. Per quanto riguarda le narrazioni mitologiche, i grandi poemi o i romanzi, mi sono permessa di realizzare immagini o forme già contenute in essi, utilizzandone le righe stampate o le pagine: per esempio qualche anno fa, immedesimandomi nell’attesa di Penelope, ho intessuto le righe dell’Odissea, ottenendo una lunga stola di 20 metri. L’anno scorso le pagine piegate e intagliate della Divina Commedia, rese vagamente architettoniche, le ho disposte in gironi. Invece le pagine piegate e intagliate dell’opera omnia di Borges sono state composte in una specie di piccolo schedario intitolato La biblioteca universale. Ora con le righe ritagliate e arrotolate del Giuoco delle perle di vetro ho fatto circa 300 perle, una per ogni pagina del romanzo».
Nel 2007 la mostra Giochi dialettici, a gennaio Giocatori di perle. Coincidenze, o l’elemento ludico, nelle sue diverse accezioni, è costante nella sua produzione?
«Coincidenze. Però se il termine gioco rimanda anche a una certa disciplina che rafforza piacevolmente con leggerezza, allora forse c’è qualcosa che riguarda il lavoro. Nel vocabolario, gioco è affiancato a ricreazione e ludo significa gioco di pubblico a carattere religioso. Coincidenze?».
Chi sono in realtà i “giocatori di perle” dell’ultima personale alla galleria Minini?
«Tutti possiamo essere giocatori di perle. Sicuramente lo sono gli autori dei libri in mostra su cui ho lavorato: Simone Weil, Martin Heidegger, Hannah Arendt, Gandhi, Zhuang-zi. Nel romanzo di Hermann Hesse non viene mai spiegato dettagliatamente il giuoco delle perle di vetro, lascia solo intuire che si tratta dello studio di possibili combinazioni armoniche tra diverse discipline del sapere, trascendendo specializzazioni e facendo risuonare insieme voci diverse. Mi viene in mente una frase della Bhagavad-Gita: tutto questo universo è attraversato da me, come una collana di perle dal suo filo».
Come definirebbe il suo rapporto con il pubblico e quello con la critica?
«Pubblico e critica sono due concetti astratti, che possono intimidire e contrariare. Fortunatamente in realtà si tratta di persone con cui è interessante, curioso, a volte emozionante, condividere una certa sensibilità, un’attitudine dello sguardo, una particolare forma di attenzione».
Dopo la personale alla galleria Minini ha altri progetti in cantiere?
«Un cantiere, vero e proprio. Seguirò i lavori di ristrutturazione della mia casa, dove avrò anche un grande studio circondato da un paesaggio montagnoso molto bello e dalla terra di cui aver cura».
LA MOSTRA
Giocatori di perle
Sabrina Mezzaqui, in occasione della sua quarta personale alla galleria Minini, attinge a diverse tradizioni filosofiche, religiose, letterarie per impostare una mostra-biblioteca. Tutti i lavori presentati nascono infatti da libri che l’artista ha letto e reinterpretato. Le modalità di elaborazione e manipolazione dei volumi sono quelli che l’artista ci ha, negli anni, insegnato a riconoscere come segnali essenziali della sua poetica: ritagli delle righe di testo, forme di origami utilizzando le pagine dei libri, copiatura manuale degli scritti, ricami. Dal 23 gennaio al 20 marzo, galleria Massimo Minini, via Apollonio 68, Brescia. Info: 030383034; www.galleriaminini.it.
LA BIOGRAFIA
Manipolatrice di scritture
Sabrina Mezzaqui è nata a Bologna il 5 gennaio 1964. Diplomata all’Istituto statale d’arte di Bologna nel 1985, ha poi conseguito il diploma all’accademia di Belle arti nel 1993. Le sue opere sono frutto di una disciplina riflessiva, di manualità ed esercizio. La Mezzaqui utilizza materiali comuni: disegno a matita o pennarello, carta, pagine ritagliate. La scrittura ricorre spesso nel lavoro dell’artista, recuperata o trasformata, oppure solo immaginata o ancora negata nella quadrettatura di un foglio parzialmente inciso i cui ritagli cadono a terra, tra permanenza e instabilità. Nelle sue installazioni, proiezioni di ombre o luci o ancora immagini di “real-life” riprese con telecamera fissa, riesce a ottenere suggestioni di grande forza. Vive e lavora a Marzabotto, in provincia di Bologna.