Ines Fontenla, ispirazioni terrestri

Argentina di nascita, Ines Fontenla è romana d’adozione da molti anni. Fin dagli inizi il suo lavoro si è distinto per un approccio contemporaneamente concettuale e manuale che non l’ha mai abbandonata, permettendole di passare da un mezzo espressivo a un altro con una consapevolezza meditata che unisce le due componenti. Il percorso che ha scelto è stato accompagnato da una profondità di pensiero che si è realizzata insieme alla ricerca e allo studio ed è sempre rimasta legata al rapporto con il territorio. Quest’idea si è evoluta attraverso l’approfondimento su vari aspetti che il territorio poteva comprendere, anche e soprattutto a livello metaforico. Ultimamente si è dedicata alla riflessione su problematiche ecologiche. La svolta si è avuta con l’opera Il cielo alla fine del mondo sul buco dell’ozono.

Parlaci del tuo ultimo lavoro, presentato a Venezia e a Vercelli.

«Ho cercato di raccontare il problema del buco dell’ozono attraverso un’installazione composta anche
da un video. Si tratta di una realtà della quale ora si parla molto poco però il buco continua ad aprirsi sistematicamente tutte le primavere in Antartide e nella Terra del fuoco. Provoca cambiamenti nell’ambiente come lo scioglimento dei ghiacci, e siccome è un fenomeno relativamente nuovo ancora non si sa bene quali saranno le conseguenze. Io ho voluto parlare di ciò in maniera sintetica e schematica attraverso simboli, metafore e allusioni, come penso debba fare l’arte. Oltre al video in cui vengono intervistati abitanti delle regioni interessate, ho ricostruito una mappa della Terra del fuoco realizzata con un tappeto verde che simboleggia il territorio, delle piccole case colorate simili alle costruzioni di questa parte del mondo che ricordano le case dei bambini e delle bambole e danno all’installazione un aspetto bucolico, negato da una serie di coltelli che scendono dal soffitto indicando la minaccia incombente».

Come sei approdata a queste tematiche?
«L’origine dell’interesse risiede nel mio concetto di arte. Credo che questa debba concentrarsi soprattutto sui contenuti, sull’etica. Penso che una delle caratteristiche dell’arte contemporanea sia che la parte estetica debba essere subordinata al contenuto. In questo modo può diventare un mezzo per riflettere sui cambiamenti non voluti che riguardano l’ambiente e soprattutto sul bisogno di prendersi delle responsabilità perché questi sono problemi che interessano tutti, sono emergenze. Mi piace parlare dei conflitti dell’uomo, rappresentare il mio tempo, la mia cultura».

Come, con la tua arte, puoi contribuire alla causa ecologica?

«L’arte può invitare a una presa di coscienza sulla situazione dell’ecologia in questo momento. Non voglio dare soluzioni, voglio soltanto cercare di provocare un’inquietudine che metta in condizione la gente di incuriosirsi e di approfondire il tema, il mio è un invito a interrogarsi».

Hai iniziato lavorando con le carte geografiche, cosa ti interessava in quel momento?

«Mi interessava soprattutto il concetto di territorio, di come l’idea che ne abbiamo sia qualcosa che è cambiata nel corso del tempo nella mente dell’uomo al di là della rappresentazione geografica concreta. Per questo ho utilizzato delle carte geografiche antiche mettendole a confronto con quelle moderne. Il mio intento era anche quello di riflettere su un problema di identità. Siamo abituati ad “essere” in base alla nostra appartenenza geografica e questa è una realtà dell’oggi e del qui, ma era diversa prima e sarà diversa anche dopo».

Perché hai scelto di intraprendere il lavoro sulla città ideale?

«È stato un po’ uno sbocco della mia riflessione sulle utopie. Dopo la realizzazione delle opere sulle carte geografiche mi sono interessata ai territori utopici che mi hanno portato a considerare le città ideali pensate dall’uomo, mai realizzate, ma che rimangono come un progetto, come la ricerca di qualcosa che va al di là di quella che è la realtà. Ho guardato molto agli architetti e ai filosofi, cominciando da Platone per finire con Ledoux».

Sei poi approdata alle valigie scandagliando la tua storia personale di migrante che ha cambiato territorio e nazionalità.
«Le valigie sono state l’espressione più intima della mia arte. Erano un po’ la metafora dello spostamento dell’uomo alla ricerca di qualcosa di migliore. Ho raccontato la mia esperienza di migrante in forma metaforica. Questo lavoro si collegava anche all’utopia perché i migranti cercano di costruire la loro utopia portando dentro le valigie i propri progetti per realizzare, in un territorio nuovo, una realtà diversa lasciando dietro i fallimenti, le frustrazioni e tutto ciò che si vuole cambiare. Questa è un’esperienza personale ma è anche una realtà molto importante perché vediamo in continuazione masse di popoli che si spostano da una parte all’altra cercando di vivere in una maniera differente. Una di queste valigie conteneva una serie di frasi che ci portiamo dentro: avrei voluto, avrei potuto, vorrei, potrei».

Infine, ci anticipi il tuo prossimo lavoro?

«È sempre relazionato ai temi dell’ecologia. È un’installazione con la terra e una mappa. Cerco di creare una tensione fra la terra fertile, la madre terra e la terra che l’uomo ha distrutto. Una grande mappa stampata su un vetro rotto viene appoggiata sopra una superficie di terra appena arata, c’è un contrasto fra i due elementi che crea tensione».


LA MOSTRA

Dalle opere degli inizi ai temi ecologisti

Fino all’11 gennaio a Roma nella sede dello studio legale Lovells (info: 066758231) è in corso la personale di Ines Fontenla a cura di Chiara Erika Marzi. In mostra varie fasi del lavoro dell’artista dagli inizi, quando utilizzava cartine geografiche, fino ai lavori sulle città ideali, alla realizzazione delle sue valigie.